martedì 23 maggio 2017

Diritti individuali e doveri sociali

Mi ci voleva proprio questa ondata incasinata di pareri sui vaccini per rientrare nel mio blog e scrivere.

E, attenzione, non me l'ha ordinato il dottore. Fino a ieri mattina ero convinta di non voler dire mezza parola pubblicamente su questa faccenda. Poi ho letto su Facebook un post di mio cugino Paolo, infettivologo, che esprimeva con passione e con forza il suo parere pro - vaccini, secondo cui è una questione di ignoranza popolare se esistono persone antivacciniste e che è una perdita sociale secca non capire che i vaccini sono alla base della nostra salute individuale, come specie umana e quindi anche come società.

Mi son detta che con lui, per la conoscenza e la stima reciproca che ci lega, fosse possibile esprimere il mio parere sul social più diffuso ad oggi e gli ho posto qualche domanda. 

Vi chiedo attenzione anche su un altro aspetto: io non sono antivaccinista. Io cerco solo di capire. E mi è successo persino che qualche giorno fa, una persona che stimo mi abbia scritto su Messanger dicendomi che mi avrebbe tolto l'amicizia su Facebook, forse perchè ha intercettato il 'mi piace' che ho messo sulla petizione contro la legge Lorenzin. Mi è dispiaciuta la reazione di questa persona. Essere contro una legge che vuole regolamentare i vaccini, non vuol dire essere antivaccinisti. Ma poi mi sono anche detta che pazienza: non per tutti il valore del dubbio ha lo stesso significato che ha per me, per la persona che sono e come professionista dell'Educazione. Ed esistono persone che per convinzioni personali, che rispetto in quanto tali, fa di tutt'erba un fascio. Libera io, liberi loro. E amici come prima, anche se non su Facebook. E chissenefrega di Facebook.

                                 


Torno alle questioni che ho posto a mio cugino, a partire dai forti timori che ho in merito a questa campagna di disinformazione pazzesca:

- trovo spaventoso che si dia dell'ignorante a chi la pensa diversamente rispetto al pensiero proposto. In generale e quindi anche in questo caso.
- le persone che conosco e che stanno dubitando di questa linea, sono persone acculturate, che quando non conoscono qualcosa cercano di informarsi al meglio, dribblando le fake news e andando a verificare il più possibile le fonti.
- mi spaventano 12 vaccini da far fare al bambino nei primi 11 mesi di vita, quando ancora il sistema immunitario non è formato. Ma davvero ne servono così tanti e così presto?
- mi spaventa che le ricerche fatte in merito e che attestano questa linea, siano pagate da industrie farmaceutiche che, essendo imprese profit, coerenti con se stesse, devono procurarsi profitto e secondariamente pensare al valore della salute pubblica.
- mi pare di assistere più a un dibattito politico, e di bassa lega come ormai quasi sempre avviene a livello nazionale, che non a un dibattito scientifico.

Paolo mi risponde con dedizione, raccontandomi molte cose, tra cui io mi soffermo ora su quelle che mi hanno colpito di più e cioè che i vaccini sono lo strumento medico più importante che abbiamo e che da medico riscontra due forti problemi: il primo è che con il dilagare dei social, tutti sembrano esperti di tutto (e questo lo colgo anche io come punto su cui porre attenzione, in generale e anche nel mio campo professionale). E poi che in Svizzera, dove non esiste l'obbligo delle vaccinazioni, il 95% delle persone è vaccinato.

E qui arrivo al fulcro concettuale per cui ora mi trovo a scrivere: uno dei bisogni sociali più importanti che abbiamo da sempre, ma che con l'ondata dei social diventa estremamente rilevante ed evidente, è che il popolo è fatto di persone e le persone hanno bisogno di imparare, non di obbedire. Una legge che obbliga a vaccinare i propri figli, senza trasmettere il senso delle vaccinazioni (un senso che deve necessariamente andare oltre il dato tecnico-scientifico e che deve arrivare a toccare la dimensione di responsabilità individuale e sociale), non aiuta a comprendere, a imparare. E non ci si può lamentare o arrabbiare se poi le persone si spaventano, si ribellano, si aggrappano alle prime verità che trovano sotto mano. 

Il nostro corpo e il corpo dei nostri figli, non è un oggetto. Noi siamo il nostro corpo. Noi abbiamo il diritto di capire cosa ci viene iniettato. E non per diventare tuttologi, ma perché è un diritto della persona capire, valutare, scegliere ed è un dovere genitoriale compiere scelte che supportino la salute dei propri figli.

Ovvio che la medicina è una scienza ed è una scienza necessaria. Ma ormai da decenni sappiamo che non esistono scienze esatte, nemmeno quelle con sistemi di verifica e controllo più rigorosi. Le scienze sono un prodotto dell'intelligenza umana e l'intelligenza umana non è infallibile. La storia delle scienze ci insegna che il progresso scientifico si basa sugli errori scovati, per riuscire a superarli, ad andare oltre, migliorare il metodo e renderlo il più preciso possibile.
Per quelli che come me sono professionisti di una scienza umana, questo è assodato. Siamo stati bistrattati per decenni riguardo al non rigore dei nostri paradigmi scientifici. Poi, l'iperspecializzazione a cui si è giunti nelle cosiddette ex scienze esatte, ha portato all'opposto delle sue intenzioni: spesso gli iperspecializzati dicono tutto e l'opposto di tutto. Se io ho un problema medico e vado da 5 diversi medici della stessa specializzazione, è quasi certo che io esca da queste visite con 3-4-5 pensieri e posizioni differenti in merito. Quindi, come la mettiamo? 

Io la metterei così, e per me stessa già lo faccio: cerco medici che sappiano darmi fiducia e per farlo devono essere capaci di prendersi cura di me, non del mio sintomo. Perché io del mio sintomo fine a sè ci capisco ben poco. Ma se un medico mi aiuta a tenere insieme la complessità del mio stato di salute, di benessere/malessere, e mi accompagna in un percorso, guidato da lui, in cui prima che prescrivermi un farmaco e tanti saluti mi fa capire su che cosa questo farmaco va ad agire, quali i pro e quali i contro, quando è bene usare quel farmaco e quando invece si può evitare, cosa del mio stile di vita mi fa male e quindi devo cercare di guardare, controllare, conoscere di me e del mio modo di vivere, allora io mi sento in contatto con me stessa e mi affido e non ho bisogno di girare 5 studi medici diversi con la confusione che ne deriva e che mi fa rimanere al punto di partenza, spaurita nel rendermi conto di non capire cosa mi stia succedendo.

E non sono antivaccinista. Credo in uno stato di diritto. E questa legge non mi piace perchè intimidisce, non educa. Spaventa. Punisce con sanzioni pecuniarie, quando mai io ho imparato qualcosa quando mio padre mi toglieva la mancia perchè mi ero comportata come secondo lui non avrei dovuto. Mi giravano solo le balle. Imparavo da lui e da mia mamma quando invece mi mostravano il senso dell'incazzatura che facevo loro venire con i miei comportamenti. É una legge che terrorizza, paventa la perdita della patria potestà, quando si fa già fatica a trovare soldi pubblici per autorizzare allontanamenti di minori dal proprio nucleo familiare e ogni servizio sociale che io conosca (e ne conosco un bel po') prima di arrivare ad una simile decisione, le prova tutte, ma proprio tutte, perchè un allontamento dalla famiglia comporta ben più danni alla società (sia da un punto di vista umano, che economico) che non una malattia infettiva in un paese come il nostro in cui esiste ancora una buona immunità di gregge (il termine me l'ha insegnato mio cugino ;) ), che ok, concordo sia un fatto essenziale da presidiare. Ma è allo stesso modo essenziale che un genitore, coscienzioso e responsabile, possa informarsi, conoscere, domandare quanti mesi o anni di vita è meglio che abbia il suo bambino per sopportare e beneficiare il più possibile di un vaccino, così come di ogni altra cura medica, se esistono altre possibilità e quali potrebbero essere. Dubitare è un diritto genitoriale e di ogni persona in generale. Dovere dei medici non è somministrare farmaci e stop, ma prendersi cura dello stato di salute di ogni cittadino. Proprio perché, come dice mio cugino, la professione medica non ha un valore solo scientifico, ma anche sociale e io aggiungo anche umano.

Certo poi, se mi dovessi ritrovare vittima di un'emergenza per cui ne va della mia vita, caro medico, fammi ciò che credi sia meglio, salvami la pellaccia e giuro che non mi arrabbio con te! Al massimo, se ce la fai e sopravvivo, insieme ai miei ringraziamenti di cuore, ti farò anche qualche domandina...

venerdì 18 settembre 2015

#storia8: la meta che segnò il più bell'inizio

Difficile aprire questa pagina della mia storia professionale. Difficile ma bello. E dolce. E importante.

Mi ricordo bene quando arrivò la proposta della prima collaborazione ufficiale con l’allora Studio Dedalo di Milano, luogo in cui mi sono diplomata post lauream in Consulenza pedagogica. È qui che ho assorbito la fondamentale differenza tra apprendere e imparare. È qui che ho imparato dapprima il mestiere di Educare e dove poi ho compreso a fondo il ruolo della consulenza pedagogica e ho iniziato a praticarla. È qui che ho consolidato i fondamenti paradigmatici della Scienza pedagogica. È qui che mi piaceva farmi prendere in giro da compagni e docenti che mi appellavano come la Pasdaran dell’Educazione e che ho cominciato a fare i conti con la mia esagerazione in tema di passioni.

Nell’anno e mezzo di collaborazione ho preso parte a tre progetti consulenziali, di formazione, per tre Organizzazioni del non profit. Sorrido ora nel ripensare a quanto ero emozionata nell’affrontarli. Oggi macino consulenze, formazioni e progettazioni, ma allora per me era l’inizio simbolico della mia professione. Per questo ripenso a quel tempo con dolcezza, perché mi rivedo agli esordi e sento chiara nella pelle e nella testa l’energia che ci ho messo. Scosse adrenaliniche da augurare a chiunque!

Dopo qualche mese dall’inizio, ho fissato un giorno in agenda per lo Studio. Era il lunedì. Mentre nel resto della settimana attraversavo (come oggi) in lunga e in larga la Martesana facendo tappa nei vari servizi educativi e sociali per Cooperativa Milagro.

Ma il lunedì si stava in Studio e si ragionava di Pedagogia interazionale e della sua evoluzione, si progettavano conferenze e svariati eventi culturali, compresi i primi tentativi (per lo Studio) di presenza on line. Mi nutrivo di quei momenti come fossero pane.

Quando arrivò la notizia che lo Studio Dedalo avrebbe chiuso i battenti, il senso di smarrimento fu grande.




Uno stralcio del logo di Studio Dedalo, preso dalla pagina di Facebook su cui si annuncia la chiusura dell'impresa, dopo 25 anni di lavoro e di ricerca in campo pedagogico.









Oggi posso dire che per me tuttosommato è stata un fortuna. Per come ero fatta, ho avuto bisogno di uno strappo forte dai Maestri per potermi legittimare in pieno la mia autonomia professionale.

E non solo. Negli anni mi sono resa conto di quanto, nel mio lavoro, abbia più valore lasciare che siano le esperienze ad in-segnare, i ruoli ad interazionarsi, tenendo la persona che siamo sullo sfondo, per dare possibilità di libertà a coloro che accompagniamo per un tratto di strada.


E do la buonanotte all’allieva che sono stata e a tutte le persone mi hanno incontrata in questi anni come educatrice, formatrice e consulente pedagogica.

venerdì 31 luglio 2015

#storia8: Tempo di vacanza, tempo di passioni

Oggi è il mio ultimo giorno lavorativo, prima delle tanto agognate ferie, che passerò tra mare, fiume, città, amici e famiglia, campagna e magari anche un poco di montagna.

Alcuni impegni di lavoro mi sono saltati all’ultimo oggi e sono stati rimandati a settembre. Ne approfitto quindi per scrivere. Che chi mi conosce sa essere una mia passione.

Purtroppo non sono riuscita quest’anno a ricavarmi spazi fissi in agenda per farlo. Perché io non sono quella da blocco dello scrittore, quando mi siedo davanti un tavolo e le dita poggiano sulla tastiera del netbook, vanno, spesso da sole. Sarebbe bello quindi avere almeno un po’ di tempo fisso a settimana per buttar giù qualche pensiero. Così avrei voluto fare a marzo, quando vi avevo promesso che avrei fatto il possibile per scrivere un articolo a settimana, sulle mie esperienze professionali.

Non ce l’ho fatta, ma agosto potrà essere un buon mese per recuperare e poi, da settembre, ricomincia l’anno lavorativo con i buoni propositi, tra cui tornerà, primo in fila: scrivi una volta a settimana! E vedremo come andrà.

La scrittura non è la mia unica passione. Anche la pedagogia mi fa battere il cuore. Mi fa ridere mio marito quando mi vede assortita, e non bado a ciò che mi sta raccontando in quel momento, e mi dice: ‘ma la pianti di pensare alla tua pedagogia? Mi ascolti?’. Sì, analizzare gli avvenimenti con sguardo pedagogico mi ha preso quando ho iniziato l’Università e credo non mi abbia mai mollato.

Per questo, nel lontano…credo…2006 o giù di lì, quando Cristina Palmieri, docente all’epoca in Pedagogia della disabilità e dell’integrazione (Scienze dell'educazione, Milano - Bicocca), mi ha chiesto di affiancarla come cultrice della materia per l suo insegnamento, ho accettato senza pensarci un attimo, anche sapendo che sarebbe stato un incarico totalmente gratuito, che avrei dovuto giostrarmi in aggiunta ai lavori che già avevo e che mi permettevano anche un guadagno economico.



L’immagine è stata tratta dal film Into the wild, di Sean Penne liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera






Sono rimasta al suo fianco per tre anni. Ho esaminato studenti e studentesse, li ho seguiti nella scrittura delle tesi, partecipando anche alla loro discussione come correlatrice e ho fatto qualche comparsa in alcune lezioni della Professoressa, che mi ha affidato pezzi di lezione. Era per me bellissimo accompagnare i futuri educatori nel cogliere il nucleo di quella che sarebbe stata la loro professione: difficile, nascosta dietro alle pieghe delle relazioni di aiuto naturali, bersagliata da altre scienze umane, affini ma non specifiche, non necessarie all'Educazione come la pedagogia. Una professione potente e ben definita se messa a fuoco con attenzione e perseveranza tramite quello che a me piace chiamare ‘lo sguardo pedagogico’. Ricordo di aver fatto fare a quegli studenti tanta fatica, ma anche di aver loro mostrato chiaramente il pedagogico, così da poterlo scegliere davvero, oppure da sentirsi in diritto, e forse anche in dovere, di navigare per altri mari professionali.

Avrei potuto, al termine di questi tre anni, concorrere per entrato in Dottorato. Ricordo di aver cominciato a studiare per il concorso, ma poi ho avuto il dubbio che non sarei riuscita a portare contemporaneamente avanti il lavoro nel Terzo settore, come invece per me era importante fare e allora ho rifiutato l’occasione.

Ad oggi non so dirvi, se ho fatto la scelta giusta. Per come sono fatta sarei probabilmente riuscita a tenere insieme capre e cavoli, con un grosso dispendio energetico, ma con altrettante soddisfazioni. La storia è diventata un’altra e ora sono quella che sono, anche per la strada che ho scelto, essendo arrivata, allora, a quel bivio.

Ciò di cui so di non essermi pentita è di aver portato nel lavoro che quotidianamente svolgo nei servizi educativi o nel loro coordinamento, ma anche nelle consulenze e nei progetti formativi che faccio, il rispetto del paradigma pedagogico, che rende il mio lavoro una professione preziosa, che sa far crescere, imparare e insegnare, trasmettere e sperimentare, sentire e fare, conoscersi e scegliere, riorganizzarsi e ripartire.

Tutto ciò per me è straordinario. Emozionante. E termino questo anno lavorativo, stanca morta, ma con un senso di pienezza che mi dà pace e serenità.

Auguro a tutti voi buone vacanze. Che ognuno di voi possa fare il bilancio tra bisogni e desideri e riposarsi un po’, per poi ricominciare la propria strada, qualunque essa sia!

Ah, per la cronaca: quest’anno, con le mie due socie di Metas, ho ripreso a collaborare con l’Università, con la cattedra di pedagogia generale e sociale del Prof. Sergio Tramma. Forse quindi rinunciare al Dottorato non è stata una scelta definitiva di distacco dal mondo accademico, ma solo un arrivederci a quando sarei stata più pronta!

martedì 2 giugno 2015

adeguamento alla Cookie Law

In attesa di capire se con blogger c'è bisogno di adeguarsi alla normativa, oppure se il tutto è già stato sistemato automaticamente e conformemente alla legge, posto questo avviso. E poi quando capirò meglio, capirò anche se sistemare questo avviso diversamente, oppure eliminarlo:


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consulta il testo di legge

#storia7: aggiungi un posto...in classe

Oggi, 2 giugno, ho lavorato da casa per recuperare il lavoro che avevo in arretrato. Non è stato facile. La tentazione di chiudere tutto e scappare al mare, dove il marito si sta passando una settimana di riposo, è stata forte. Ma ha vinto il bisogno che avevo di mettere ordine tra tutti i pezzi di lavoro che ho. Mi ha fatto compagnia la mia cagnolona, con cui mi sono concessa due giri in campagna, per staccare il cervello e rigenerarmi.

L’anno scorso, in questi giorni, stavo chiudendo un progetto a cui avevo lavorato tutto l’anno. Si chiamava IES, che sta per interventi educativi scolastici.

Un bel progetto, iniziato tre anni prima, a cui io sono subentrata nella sostituzione di una collega andata in maternità. Il progetto era pensato per supportare gli alunni DSA, potenziando le loro capacità di studio e di adattamento alla didattica. L’anno scorso però, in occasione dell’entrata in vigore della normativa sui BES, il progetto ha preso nuova forma: il mio compito è stato quello di incontrare gli insegnanti di ogni classe, di un intero plesso scolastico, analizzare la domanda di bisogno presente e realizzare interventi in classe che andassero a supportare questo bisogno.

Insieme poi alla coordinatrice del progetto, che teneva i rapporti con il servizio sociale, e una collega psicologa che ha gestito i tavoli Bes e interventi specifici per le sue competenze, il lavoro è stato molto interessante e su più livelli.

Lo scopo era quello di permettere alla scuola di appropriarsi del vero senso per cui i Bes sono stati pensati: includere ogni alunno e alunna nella didattica quotidiana, evitando, nel tempo, di dover ricorrere a specialisti di ogni tipo nella presa in carico di qualche particolarità, perché la scuola, può realmente includere.

E così, a partire dal lavoro fatto nelle classi, io ero là per aiutare gli insegnanti a riappropriarsi del senso educativo profondo che sta al cuore dell’istruzione.

È stata un’esperienza molto interessante, ma difficile. Su tutti noi piovono leggi e normative che non siamo pronti ad assumere con facilità. Alcune insegnanti mi richiedevano di prendere in carico il loro bisogno, per poter essere alleggerite nelle fatiche quotidiane. E non è stato semplice mostrare loro il senso della mia presenza.

Mi sono chiesta il perché molto spesso, durante e dopo questa annualità. Sicuramente in équipe abbiamo avuto problemi organizzativi che non hanno favorito il lavoro. Banalmente io dovevo incastrare la mia presenza a scuola in orari dettati dalla mia agenda, che non sempre sono stati quelli più utili per svolgere il lavoro. Poi ci sono state le consuete resistenze del corpo insegnante, che fatica a guardare una figura esterna come possibilità di essere accompagnati nella didattica quotidiana, approfittando di una pedagogista che, per sua specificità professionale, è capace di formare alunni e insegnanti, mentre il lavoro didattico si attua. Non serve fare parentesi nelle normali giornate di lezione. Vince così l’abitudine, per cui affidare i famosi ‘casi particolari’ e poter seguire meglio il resto della classe.

Ma è proprio pensare di dover seguire ‘il resto’ che non quadra, se si analizza la situazione da un punto di vista pedagogico. La scuola ha come proprio oggetto di lavoro quello di far incontrare il sapere codificato dall’umanità con persone in crescita. Andando a scuola ogni persona può capire ciò che le piace e immaginarsi una vita possibile per sè. Può capire quale parte di quel sapere gigante e globale voler approfondire e, man mano, pensarsi in un mestiere o in una professione, in cui realizzare un gran pezzo di sé.

Non esiste ‘un resto’, dunque. Se a scuola ci devono andare tutti (e meno male!), tutti hanno diritto di godere di questo percorso.

Ben inteso. So bene che la scuola non versa in una situazione facile. So bene che fare gli insegnanti oggi è un compito eroico, perché si arranca nelle fatiche e il valore dato nei secoli alla scuola sta perdendo quota. Lo so anche perché, per me che ho scelto di stare nel mondo educativo primariamente in ambito extra-scolastico, è normale purtroppo partire dalla consapevolezza che l’Educazione sia sempre considerata, dal mondo ‘produttivo’ come cosa poco importante. Ma è a partire da qui che, unendo le forze, si può trovare lo stimolo per riprendere a guardare lontano. Non credete?

Istruzione ed educazione sono due facce della stessa medaglia che si chiama Formazione. Il sapere pedagogico, che coltivo quotidianamente, me lo ricorda ad ogni piè sospinto, sia che io lavori dentro la scuola, sia che io lavori fuori, e mi aiuta a centrare il bersaglio di ogni mia azione professionale.

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L’immagine è stata tratta dal film American Sniper, di Clint Eastwoode liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera








Voglio terminare questo 2 giugno, festa della Repubblica, ricordandomi e ricordandovi che:

Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
[…]

lunedì 11 maggio 2015

#storia6: Giri di Prova

Oggi sono in vena di porvi e di pormi una domanda importante, a partire dal fenomeno della dispersione scolastica, su cui ho lavorato da fine 2008 fino all’anno scorso.

Ma che cos’è per me la dispersione scolastica?

Mentre ero in quelle varie faccende affaccendata, ho capito che la dispersione scolastica, vista come dato tecnico e statistico, impedisce di cogliere appieno il fenomeno. Che, come sappiamo, è sempre più in espansione.

Io vedo la dispersione scolastica come la punta dell’iceberg di una realtà molto più complessa: una situazione di vita che non permette ai ragazzi e alle ragazze di immaginarsi un proprio posto nel mondo.

Un bel problema dunque. E credo che se al posto dell’aggettivo ‘scolastica’ mettessimo ‘esistenziale’, avremmo maggiori coordinate di pensiero e progettazione . Quello che ho imparato in questi  11 anni di lavoro è che in Educazione le semplificazioni delle questioni non paga mai. Problematizzare e complessificare comporta fatica, ma permette anche di cogliere sfumature di senso imprescindibili per darsi coordinate di azione utili ed efficaci.

E così, facendo prima l’educatrice in un servizio chiamato ‘Scuola bottega’, per poi, dopo uno stop amministrativo di un anno, coordinarlo per i successivi due, con i miei colleghi e in collaborazione con Enaip Lombardia, abbiamo gestito un progetto in cui,i ragazzi e le ragazze che lo frequentavano (e i numeri erano altissimi: siamo arrivati in un’annualità ad avere un’ottantina di utenti), potevano sperimentarsi in laboratori di mestiere ed essere accompagnati in percorsi educativi individuali e di gruppo, alla ricerca del proprio saper fare. Ma non solo: abbiamo con loro lavorato perché riuscissero a recuperare quella dimensione del sognarsi che deve appartenere all’adolescenza e alla giovane età. Perché sappiamo che un must orientativo per eccellenza è che siamo capaci di fare meglio quello che più ci piace.

Anche dopo la fine dei finanziamenti regionali per due annualità e a regime ridotto, solo con Cooperativa Milagro, abbiamo continuato a lavorarci. Siamo riusciti a garantire alcuni laboratori esperienziali, collaborando con Afol, alcune esperienze di tirocinio e borsa lavoro, ma anche iscrizioni a nuovi percorsi scolastici, o sostegno per terminare quelli in corso. Abbiamo svolto bilanci esperienziali e di competenze, non solo tramite colloqui, ma costruendo esperienze concrete in cui permettere a ragazzi e ragazze di guardarsi e provare a scegliere.

Ma come è possibile capire cosa ci piace, quando il pressing sociale ci impedisce di collocarci nella nostra propria dimensione esistenziale? E con gli adulti che ci dicono che la scuola oggi vale meno, perché tanto poi non c’è un posto di lavoro che mi accoglierà? E, al di là di ciò che sarà di me in futuro, che cosa la dimensione di dispersione in cui oggi sono immerso e immersa mi impedisce di conoscere e sperimentare?
Tutto sommato sono queste domande attraversabili in qualsiasi servizio educativo, sia per giovani che per adulti, per disabili o meno. Perché queste sono, come dicevo qualche riga fa, domande esistenziale. E l’esistenza non si fa incatenare da target di utenza con cui classifichiamo i servizi. Ma non possiamo nemmeno richiedere ad ogni servizio di occuparsi di tutto ciò che riguarda una persona. E la selezione delle tematiche da trattare è un valore pedagogico da agire e da insegnare.

Per questo, nel corso degli ultimi due anni, con la mia cooperativa ho cercato di formulare un progetto ‘leggero’. Si chiama Warm up: giri di prova contro la dispersione. È un progetto leggero nella forma e nei costi, che si offre di affiancare ragazzi e ragazze, che sono già in carico ad altri servizi, per poter approfondire con loro la dimensione di dispersione in cui si trovano. Fare qualche giro, che può durare dai tre mesi all’anno di durata per poche ore a settimana, per ritrovare quelle coordinate di orientamento perse a causa dei problemi più disparati.




L’immagine è stata tratta dal film Rush, di Ron Howard, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera















Warm up ad oggi non ha ancora avuto possibilità di attuazione. Contattati per tre situazioni, nessuna attivazione è partita perché la domanda di presa in carico arriva sempre troppo tardi e la vita ha già portato altrove questi ragazzi. In un caso di questi, ha vinto l’andare all’estero a cercar fortuna, negli altri due hanno vinto le fatiche. Sì, proprio quelle fatiche esistenziali che poi diventano troppo ingombranti anche solo per aderire ad un progetto educativo. E gli adulti mollano.

Vi lascio con una domanda: perché la deriva di arrivare troppo tardi si sta diffondendo a macchia d’olio con le situazioni di dispersione scolastica? Cosa non vediamo? Cosa l’Italia si sta perdendo?


Perché quello che perdono i singoli ragazzi è chiaro e l’abbiamo tremendamente sotto gli occhi ogni giorno.

martedì 14 aprile 2015

#storia5: proteggere i contesti per centrare il pedagogico

Dopo una pausa dovuta a festività e a qualche imprevisto di vita, ritorno a scrivere in questo processo di narrazione delle mie esperienze professionali.

Uno degli abiti che professionalmente indosso è quello di coordinatrice di servizi educativi per la Tutela minorile.
Sto parlando di educativa domiciliare, spazi neutro, mediazioni educative, tutoring, centri diurni educativi , incontri protetti e altre azioni e servizi educativi che di volta in volte possono essere attivati.

Tutti questi servizi sono accomunati dall’essere servizi territoriali. Operano quindi nel territorio in cui i minori e le loro famiglie vivono. E al di là delle specificità che contraddistinguono ognuna di queste tipologie di intervento, quando si lavora in Tutela si lavora per proteggere qualcuno e qualcosa.





L’immagine è stata tratta dal film Polisse, diretto e interpretato da Maïwenn, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera







Ma chi e che cosa proteggere?

Il lavoro educativo in questi servizi ha origine dall’impianto legislativo che protegge i minori, e per questo si chiama Tutela minorile, ma il nostro lavoro ha bisogno di trovare percorsi propri per esprimersi al meglio.

A livello educativo dunque, ciò che c’è da proteggere è l’esperienza educativa che si propone: cosa ha da imparare un minore che vive in un nucleo familiare fragile? E cosa deve imparare la sua famiglia?

Vi faccio alcuni esempi: per chi vive in queste situazioni di difficoltà, c’è spesso bisogno di imparare a crescere come individui, giovani e adulti, che non hanno avuto tutte le fortune di questo mondo; conoscere e accettare le particolarità del proprio nucleo familiare, salvando le proprie possibilità di riscatto esistenziale; che nessun genitore è perfetto, ma che l’importante è interrogarsi sulle proprie modalità genitoriali; immaginarsi il tipo di famiglia che si vorrà costruire e se si avrà voglia di costruirla; cosa sbaglio nell’interazione con mio figlio o con i miei genitori e quali altre possibilità relazionali ho a disposizione e posso cogliere; come faccio a essere genitore anche se i rapporti con il mio partner si sono interrotti bruscamente, a tal punto che si è valutato necessario l’intervento dei servizi sociali; ricordarsi che esiste un mondo fuori dalla 4 mura domestiche e che, se all’interno si fa fatica a vivere, il mondo fuori può dare possibilità di vita.

Il lavoro educativo in Tutela minorile ha bisogno di potenziare questa visione sociale delle proprie azioni. Un conto è rispettare la privacy delle persone in carico ai servizi sociali, un conto è rinunciare alla dimensione sociale delle azioni educative. Perché l’educativo perde il suo senso più profondo se si rinchiude tra le 4 mura. Persino l’educazione naturale ha senso perché ‘ciò che si impara in casa’ servirà poi per essere parte del mondo. E l’educazione professionale non può dimenticarsene.

È difficile, certo, gironzolare per le vie del paese o della città con un educatore, che non si sa nemmeno mai come presentare, perché farlo vuol dire lavare i propri panni sporchi in piazza. È prezioso l’aiuto che l’educatore stesso può dare in questi momenti, capendo di volta in volta quanto esporsi ed esporre e quanto far passare inosservato, proteggere appunto. Ma è anche di valore insegnare alla società che tutti possono affrontare fatiche e aver bisogno di aiuto. E che non si è persone peggiori se si ha bisogno, ma che ci vuole tanto coraggio nel farsi aiutare. In un mondo in cui è necessario figurare sempre come i primi e i migliori, il lavoro educativo in Tutela minorile può insegnare molto.

Come coordinatrice pedagogica lavoro attualmente con due équipe e 8 educatori in totale. Il mio compito consiste nell’accompagnare ognuno di questi colleghi nelle pratiche e nelle scelte educative che devono compiere quotidianamente. Aiutarli a distinguere ciò che è emergenza, e capire come e se attivarsi di conseguenza, e cosa invece rientra nella ‘normalità’ di vite affaticate, che hanno bisogno di un supporto ma anche di imparare a convivere con le proprie fatiche, sviluppando man mano competenze di resilienza e consapevolezza delle proprie condizioni e delle potenzialità che noi abbiamo visto in loro e abbiamo il compito di mostrare.

Non è facile entrare in case altrui e vestire il ruolo educativo. Ci si sente di troppo, si sente ogni giorno la fatica che facciamo fare. Ma visto che ci siamo è necessario far fruttare le scomodità che generiamo, per poter salutare il più in fretta possibile i nuclei familiari che spesso, nel frattempo, hanno imparato ad accettarci.

Il ruolo di coordinamento che rivesto ha anche il dovere di far incontrare il mandato sociale con il mandato pedagogico. Il primo è il motivo per cui i servizi sociali chiedono l’attivazione dell’intervento educativo. Il secondo è il motivo per cui queste famiglie hanno bisogno di un educatore e non di altri esperti o di semplici controllori e osservatori. Il mandato pedagogico si sostanzia nella domanda cosa ha bisogno di imparare questo nucleo familiare? Che cosa possiamo insegnare loro? Quale intervento educativo, tra i tanti di cui dispone la Tutela minorile, è giusto attivare? Qual è il modello pedagogico che caratterizza la cooperativa sociale per cui lavoriamo?

E gironzolo quindi settimanalmente tra i servizi sociali, con o senza educatori, per continuare a rendere sempre più prossimi gli ideali di intervento e di scelte pedagogiche con le possibilità reali che ci sono. È un incontro tra culture professionali quello che avviene ogni volta che mi siedo davanti, o di fianco, ad assistenti sociali e psicologhe o psicologi della Tutela. Capita di non essere d’accordo, che il pedagogico venga visto come un lusso che non ci si può permettere quando una famiglia ha bisogno di aiuto. E nel tempo ho imparato a cogliere il valore di queste resistenze: non ci si può mai incontrare se non si fa un passo verso l’altro. E compiere questo passo permette poi di aprire possibilità al pedagogico. E io posso tornare a casa o dirigermi verso altri servizi sociali, soddisfatta per aver fatto il lavoro che amo e per aver contribuito a costruire un pezzo in più di integrazione tra culture professionali, organizzative e personali differenti.


Vi saluto ora. Mi stanno aspettando in un servizio sociale!