venerdì 25 gennaio 2013

L'attesa



Domenica é nata la mia seconda nipote. Mia sorella, la madre, é entrata in ospedale venerdì sera. Due notti e un giorno d'attesa, lunghissima attesa. Non voglio immaginarmi nei suoi panni, mi bastano i miei. Dalla telefonata di mio padre, che mi ha avvisato che il momento era arrivato, ho sentito un'ansia incontenibile. Bella a tratti: stavo per conoscere la mia nipotina. Ma nello stesso tempo si sa che una nascita, porta con sé una delle paure più grosse, quella della morte. É vero, ammetto di avere così tanta paura anche solo dell'idea di partorire, che non so se diventerò mai madre, per lo meno madre "naturale". Ma non si può negare che l'atto (appunto) più naturale che si dice esistere, é uno degli atti più rischiosi al mondo. Voglio dire, anche mangiare é un atto naturale. Dopodiché é meno rischioso, con tutta probabilità, del partorire.
Il parto dà vita (sul concepimento ci possono essere versioni discordanti, ma sul parto no). L'atto che per la nostra cultura viene definito come il più altruista di tutti gli atti che una donna può compiere, quello del parto (quando parlo della mia paura di partorire le risposte più frequenti gravitano intorno all'indicare un mio possibile egoismo e non al confronto con una paura tuttosommata umana), ti fa confrontare immediatamente con il tema della morte: al di là dei rischi che mamma e bambino/a corrono nel parto, dando vita ad una persona contribuisci a far scattare il suo count down verso la sua più o meno futura morte. Ci vuole un coraggio gigante. Inoltre, soffri, spingi, temi. La vita nascitura attraversa ore e attimi di smarrimento, senso di vuoto, maltrattamenti. Tu che li ami e attendi, non puoi stare tranquillo. É impossibile. Si può imparare a governare l'ansia, però. Questo sì. E per una persona ansiosa, come la sottoscritta, vi assicuro che in queste ore di attesa, ho combattuto un match con l'ansia non indifferente. Forse é per questo che mi sono dedicata più che ho potuto al mio primo nipotino, quel tesorino di 20 mesi che di lì a poco si sarebbe dovuto confrontare con l'avere una sorellina. Lui, a differenza mia, ha vissuto un'attesa inconcepibile, piccolino com'é. La mamma stava male (questo l'ha capito nettamente). l'ha coccolata molto e poi l'ha vista andar via, "dal dottore". Da qui in poi un'attesa senza confini. Lui, l'esperienza della morte, l'ha vissuta in pieno. Grazie a lui e alla sua tenera tenacia di resistenza e tenuta, ho imparato che l'attesa é differente dall'incertezza (e dall'incertezza assoluta che comporta il confrontarsi con la morte). Lincertezza ti butta in una condizione di smarrimento senza confini. E più sei incerto rispetto a qualcosa che per te é fondamentale (come per il piccolo Mattia della presenza fino a quel giorno scontata e assoluta della sua mamma), più i confini si confondono e si allontanano e l'ansia prende il sopravvento. L'attesa invece, che caratterizza la posizione di colui o colei che sa cosa e chi sta attendendo, può offrirti grandi possibilità, se si é in grado di gestire l'ansia che però ne rappresenta solo una deriva. L'attesa ti dà la possibilità di confrontarti con la curiosità, con la capacità di immaginare, di prefigurare, di creare. Attendere vuol dire avere la possibilità di prepararti a ciò che potrà essere e, contemporaneamente, di prepararti a ciò che ci sarà, perché questo dipenderà anche dal modo in cui saremo capaci di attenderlo. Un po' come per chi aspettava Godot. Attendere insegna a stare nell'attesa, al di là di ciò che avverrà. E ciò che avverrà, se sarà stato atteso, avrà la forma necessariamente di ciò che abbiamo saputo immaginare, progettare. Proprio come l'attesa di un figlio. Nessuno sa quanta vita avrà questo figlio. Ma QUALE vita avrà, dipenderà anche da come l'abbiamo attesa, perché saremo maggiormente pronti a costruirla come l'avremo immaginata.