lunedì 17 novembre 2014

Tra alluvioni e scelte individuali: responsabilità e dignità

Oggi ho appreso della morte di un'amica. Una ragazza di 34 anni come me, conosciuta qualche anno fa, quando per lavoro, ho trascorso una settimana nella Comunità di Frascaro di San Benedetto al Porto. Nell'articolo che ho scritto in occasione della morte di Don Gallo, ne troverete traccia. 
Ho saputo della morte di Lisa tramite un post di Facebook. Ho chiamato Graziella, la responsabile della Comunità di Frascaro: mi ha detto che non c'è stato nulla da fare. Tempo fa Lisa ha lasciato la comunità. Dopo un percorso in risalita, sono subentrate numerose compromissioni di salute e la voglia di farcela non ha retto. Gli operatori l'hanno seguita a domicilio per un po', chiedendole di ritornare in struttura, perchè troppo debole per farcela di nuovo, ma Lisa 'ha fatto le sue scelte'. Non ha voluto tornare. 

Potremmo stare qui per ore a discutere dei pro e dei contro, di scelte e non scelte, di responsabilità e dannazione. Ma io vi dico che a me piace questa impostazione educativa by Don Gallo: essere capaci di rispettare le scelte individuali, anche quando si direzionano verso l'impossibile e l'inesorabile. 
Angoscioso sì, ma molto umano ed educativo. Laddove per educativo vogliamo intendere un processo per cui si affiancano professionalmente le persone a partire dalle loro condizioni esistenziali, evitando di volerle sradicare prepotentemente dalla realtà in cui hanno vissuto e che ha formato il loro modo di guardare la vita e il mondo.

Leggevo qualche settimana fa la tesi che un mio amico e collega, Matteo Ripamonti, ha scritto per il suo Dottorato: un'analisi del dispositivo educativo delle comunità per persone tossicodipendenti. 
Matteo si è interrogato sul dispositivo di questi servizi per cui si è portati come operatori a dare responsabilità totale alla persona circa la sua condizione di tossicodipendente, ma contemporaneamente si annulla, una volta entrati in comunità, qualsiasi possibilità di scelta adulta sul proprio percorso. Matteo raccontava di un quarantenne che, a suo tempo ospite della struttura in cui Matteo stesso lavorava come educatore, in occasione di una giornata di gita fuori porta, gli chiedeva se potesse fare il bagno nel lago, dopo pranzo. La risposta è stata: 'Hai dieci anni in più di me, non devo essere certo io a dirti se fare il bagno o meno dopo aver pranzato'. 

Oggi, in occasione della notizia della morte di Lisa, ancora una volta ho capito perchè il 'modello educativo di Don Gallo' a me piace molto, come persona e come professionista dell'educazione. Gli operatori che lavorano nella Comunità di San Benedetto al Porto, danno dignità alle persone di cui si occupano. Se sono persone adulte, come per la maggior parte sono gli ospiti delle loro strutture,  si rapportano a loro riconoscendone prima di tutto l'adultità e il diritto alla scelta sulla propria vita. 
Con ciò non vuol dire che non si adoperino per aiutarli ad uscire dalla loro condizione di tossicodipendenza. Ma che se si raggiunge questo obiettivo, è perchè il percorso è stato co-costruito, non imposto. E perchè, come probabilmente è successo per Lisa, se non si riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, non si viene abbandonati, ma accompagnati nella vita che si sceglie, perchè la scelta sia il più consapevole possibile.

Per questo stimo molto l'opera di San Benedetto al Porto. Sono coerenti fino in fondo con i valori sociali che diffondono, non chiudono le comunità ghettizzando i loro ospiti, ma li aiutano a stare in contesti sociali in cui, con le dovute risorse, possono compiere nuove scelte. Volendolo.
Spesso questo modello non viene capito. E' in netta controtendenza rispetto ai modelli terapeutici e riabilitativi. E io ritengo sia un fiore all'occhiello dell'impostazione pedagogica di questa tipologia di servizi.

Ieri sentivo al TG di una comunità per persone tossicodipendenti di Milano: completamente allagati dall'esondazione del Lambro, hanno trasferito gli ospiti della comunità in attesa di sistemare e bonificare la struttura e la zona. E mi son chiesta, e oggi a maggior ragione mi chiedo: perchè non hanno lasciato gli ospiti a lavorare per la comunità in cui vivono? Sono persone adulte. Devono e possono agire responsabilmente. Certo, tra loro potrebbe esserci qualche persona che oltre alla tossicodipendenza è malata per compromissioni di diverso tipo. Va bene. Le persone malate, che non riescono a lavorare, devono essere protette. Ma una persona adulta tossicodipendente è per forza e sempre una persona malata? Io dico di no.

E forse, scardinare dalla tossicodipendenza i concetti di malattia, infermità e minorità, riportando al centro la dignità della persona e la possibilità di autoderminazione adulta, aiuterebbe di più e meglio chi è finito nel vortice della dipendenza, le loro famiglie e la società in cui, malgrado chi vorrebbe 'ripulire e ghettizzare', tutti loro e noi viviamo.

A tutti coloro che hanno conosciuto e amato Lisa, faccio le mie sincere condoglianze.

Buon viaggio Lisa. Salutaci Don Gallo!

venerdì 31 ottobre 2014

Evoluzioni di senso, non solo di forma

Spesso capita che prodotti e servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono infatti un’offerta al pubblico, qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento con i tempi, la possibilità di rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.

In questi ultimi anni però sto assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso. Mi riferiscono ai servizi afferenti alle Politiche giovanili, da me molto frequentati per motivi di lavoro.

Tutto è cominciato, per lo meno in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.
Dagli anni ’80 sono stati questi i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero, per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio. L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali, quelli per cui, per esempio, ‘Io in un centro di aggregazione non ci andrò mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che  più si sta lontano dallo sguardo adulto, più è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare dannose per la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a declinare il tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della loro voglia di in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che sentono più stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di frequentarli.

Al giorno d’oggi, di Educative di strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché soprattutto? Al di là di risposte a favore o contro la permanenza di questi servizi, ciò che a mio parere è un dovere professionale del pedagogico è porsi la domanda: siamo certi che i servizi oggi in essere accolgano i bisogni socio-educativi attuali dei cittadini a cui sono offerti?

Riguardo alle Politiche giovanili trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta, gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta. Mi si potrà dire che tutto ciò è sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un decennio in servizi per i giovani, risponderò che invece non sempre è stato così. I centri di aggregazione spesso si sono isolati, sono diventati ghetti dorati per ragazzi e ragazze che hanno compiuto percorsi educativi molto ricchi e interessanti, ma di cui molto spesso si è faticato a mostrarne alla comunità il valore e la portata. E non basta che educatori e coordinatori siano stati capaci di porre in evidenza i progetti e le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno attraversato quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si sente come bisogno attuale è che la comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo loro servizi, ma che ci sia una presa d’atto di corresponsabilità e che questa corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti in prima persona e non delegata ai professionisti. Competenza di questi ultimi quindi sarà quella di costruire occasioni di scambio, di formazione in itinere e di presa in carico in cui ogni cittadino si attiva, a partire dal ruolo sociale che riveste in quello specifico incontro.

C’è in atto una vera e propria evoluzione di senso. Non esistono più i ragazzi del centro di aggregazione tal dei tali, esistono invece i ragazzi di quel paese, di quella città, in cui tra le varie offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro frequentano. Cosa vuol dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto per i non addetti al lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo è che non basta più che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un target dei propri cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo degli operatori che la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo settore e volontariato co-progettino a partire dall’azione del bando di gara, si co-attivino e a cascata convochino i diversi soggetti territoriali. Questo perché è anacronistico pensare che ai giovani di oggi possano bastare le offerte, pur ben pensate, di un unico servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli, fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati nella strutturazione di ponti semantici  che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia, non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.

In effetti, il problema non è e non può più essere, interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite, in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro; un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni, sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio sociale di funzionare da possibile “connettore”, affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone, 2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo frequentano abitualmente? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.
Sono gli adulti, professionisti e non, che ancora una volta devono evolvere i propri paradigmi di pensiero. I ragazzi e le ragazze già da anni, ci segnano la strada. E non perché siano più intelligenti, non voglio necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono spontaneamente cogliendo ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di fuori di ogni preconcetto e formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un centro di aggregazione, non può essere geloso delle proprie iniziative. Deve offrire un servizio alla cittadinanza, trasformarsi da centro a polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di connettere reti di interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria specificità di offerta, altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere poli cloni.
Non mi sono dimenticata delle Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale: educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.

A mio parere è questo che al giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro e di presa in carico. Questo è formare una comunità perché evolva dall’offerta di servizi competenti (che sono anche più costosi) all’assunzione delle proprie responsabilità educative, diventando una comunità competente.


Esistono simili possibilità evolutive per servizi educativi destinati a target socio-pedagogici differenti di popolazione? Penso ai centri per persone disabili, alle comunità alloggio destinate ai diversi disagi, alle educative domiciliari e la lista può ancora allungarsi. Sarebbe interessante pensarci e scoprirlo.

giovedì 28 agosto 2014

#pensodunquebloggodue - Circolarità comunicativa e fenomeno educativo

I blogger del gruppo Snodi Pedagogici hanno scritto, e oggi pubblicano, una serie di articoli sui propri blog, inerenti ai Blogging Day precedenti: #‎EducazionEAmore‬#‎EducazionEbellezza#‎PedagogicAlert.
Una sorta di conclusione su quanto è emerso fino ad oggi grazie ai vostri contributi, per rileggere assieme a voi i passaggi fondamentali, provando a dare delle risposte ma anche porre e porsi nuove domande, in vista dell'antologia che verrà pubblicata ad autunno e il cui ricavato andrà in beneficenza alla "Locanda dei Girasoli" di Roma.


Circolarità comunicativa e fenomeno educativo

In un articolo precedente ho trattato del valore educativo della circolarità comunicativa. 
A dire il vero, in quelle righe, ho maggiormente riflettuto rispetto al rapporto tra narrazione ed educazione, lasciando sullo sfondo il lungo concetto che qui ora mi appresto ad approfondire.

Snodi Pedagogici si è imbattuto nell’esperienza dei Blogging Day. Otto, da gennaio ad agosto di quest’anno. Sei, hanno visto il contributo di scrittori ospitati sui blog degli appartenenti al gruppo. Due, tra cui questi del #pensodunquebloggodue, sono invece stati eventi di rilettura degli articoli pubblicati allo scopo di tracciare linee di pensiero che raccontassero di questa esperienza e che mettessero in rilievo il valore pedagogico della scrittura di esperienze educative.

Confrontandoci tra noi qualche mese fa, rigorosamente in rete, ci siamo imbattuti nel concetto di Circolarità comunicativa, che per noi, fin da subito, ha voluto significare non solo la possibilità di far circolare contenuti e letture sul web, ma soprattutto una struttura importante del fenomeno educativo.
Mi spiego meglio. Se si cerca su Google, per circolarità comunicativa si intende il processo che la comunicazione attraversa passando dall’emittente del messaggio al ricevente, tornando poi, a mo’ di feedback, all’emittente. E va bene. Questo è il dato tecnico della faccenda ed è ben conosciuto.

Ma la Circolarità comunicativa può essere un fattore, una struttura dell’Educazione?

Virginia Fiume, scrivendo per il Blogging Day #pedagogicalert, ha trattato dei rischi educativi mettendo a fuoco i pericoli e le derive dell’istruzione e dei sistemi di potere. Una sorta di ripresa, tutta contemporanea, del pensiero classico di M. Foucault che, nei sui testi, tra cui Surveiller et punir  (1975), dice:

Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nelle fabbriche: la disciplina.
E così, Virginia dice, attualizzando:

“Aaron Swartz per me rappresenta il promemoria quotidiano dell'esistenza di un lato oscuro dell'educazione. Quel punto in cui l'educazione smette di assolvere la sua funzione etimologica, il “portare fuori” di ex+ducere, e si trasforma nell'imbuto, in qualcosa che “mette dentro”. L'educatore come qualcuno che infila le idee nella testa degli studenti, invece che favorire lo sviluppo dello spirito critico. Il sistema educativo che inserisce le fonti a cui si dovrebbe attingere per aumentare e condividere la conoscenza in depositi costosissimi, invece che renderle accessibili.”

L’autrice dell’articolo poi, giornalista  che gira il Mondo ed ora abita e lavora a Londra, citando l’Associazione AssoEtica con cui collabora, racconta di una delle possibilità che ad oggi si hanno per riuscire a modificare il sistema imperante di controllo (economico), standoci dentro, ma cambiandone i paradigmi di valutazione, riprendendo uno stralcio riportato sul sito dell'Associazione:

“Ciò significa che per fare dell’etica un vantaggio competitivo, si deve andare oltre la certificazione, facendo leva sulla propria diversità e sui propri caratteri distintivi -già esistenti o costruibili nel tempo- tramite adeguate politiche. AssoEtica, quando chiamata a fornire un modello di atteggiamento etico, risponde con l’indicazione che il modello deve emergere dalla storia, dalla cultura, dalle strategie dell’azienda stessa. AssoEtica si impegna quindi a lavorare per far emergere quel ‘modello etico’ aziendale nella sua irrinunciabile unicità ma condiviso da tutti i portatori di interessi -gli stakeholders- coinvolti nelle attività […]. Si impegna a fornire gli strumenti e i metodi per innescare il circolo virtuoso e garantire il miglioramento continuo nella relazione cliente/fornitore. Un impegno che non può essere di certificazione – poiché il ‘certificare’ rimanda all’idea di ‘vagliare’, ‘passare al setaccio’ e cernere, distinguere ciò che è ‘giusto’ e cosa è ‘sbagliato’ – ma piuttosto di asseverazione, di testimonianza solenne. Il testimone, infatti, è colui che si pone nel ruolo di terzo, ‘arbitro’ che cerca e promuove l’incontro tra punti di vista diversi perché diversi sono gli interessi in campo  […]. Tutti portatori di crescenti aspettative, di legittimi interessi e anche di legittimi diritti. ”

Tutto ciò c’entra con l’Educazione, perché al di là di quello che si comunica verbalmente, ciò che forgia i sistemi sono le strutture materiali che vengono adottate e che fanno circolare messaggi profondi sulle modalità di vivere, a cui poi noi, ignari, ci adattiamo inconsapevolmente (R. Massa, Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, 1986). L’Educazione vista quindi soprattutto come un dispositivo, che dispone appunto i corpi negli spazi, secondo tempi precisi, attraverso la 'manipolazione' di oggetti scelti a dovere.

Andrea Fontana, imprenditore, docente e storytelling expert, rintraccia nelle storie e nelle narrazioni che il Marketing utilizza, un dispositivo ordinatore:

“Una storia è un dispositivo ordinatore, è uno strumento che sistematizza gli eventi umani dando loro un senso e una direzione”, perché “Le storie sono potenti. Invadono le nostre vite.
Ci rimangono per anni nell’animo e poi esplodono nelle nostre realtà”.

Ed è così che ad oggi, pur non venendo meno i dispositivi classici, la realtà viene costruita e trasmessa a chi la vive, secondo il sapiente utilizzo dei metodi informativo/comunicativi. L’Educazione ancora una volta sta rischiando di lasciarsi sfuggire le sue proprie potenzialità, lasciandone il libero utilizzo al marketing aziendale, senza nemmeno chiederne un ritorno. È questo un capitolo estremamente interessante da approfondire. Non è qui che intendo farlo. E' certo però che le comunicazioni messe in circolazione plasmano i pensieri. Ognuno di noi, individualmente e nelle Organizzazioni che abita, ha una porzione di potere per decidere quali messaggi trasmettere. 

Sempre Virginia Fiume, riferendosi alla ricerca  LaTorre di Pisa dice:

“[…] per asseverare bisogna saper essere. E l'educatore – per tornare all'idea di educazione di Aaron Swartz – è colui che aiuta a sviluppare gli strumenti per saper essere. […] Certo, c'è un rischio molto alto in questo approccio, il rischio di passare da un eccesso di guida e controllo al non avere una guida. Ed è in questa zona di rischio che si gioca la credibilità dell'educatore e del formatore. […]Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E imparare a scegliere con chi farlo”. 

Inizia a farsi più chiaro il rapporto tra circolarità comunicativa e fenomeno educativo. Comunicazione ed Educazione si sostanziano vicendevolmente in una struttura sociale. Come I. Salomone nelle sue Lezioni di Pedagogia interazionale (a cura di C. Gambalonga, R. Pacchioni, Magma edizioni, 2005) sostiene:

“[…] in un universo teorico che ha come paradigma centrale quello della comunicazione il problema degli strumenti si deve trasformare nel problema dei linguaggi dentro la comunicazione educativa; vanno quindi studiati quali tra i linguaggi siano quelli che fanno parlare la comunicazione in senso educativo, la particolare lettura che noi diamo di questo universo teoretico è la teoria dei media interazionali. Il passaggio fondamentale dai paradigmi pedagogici orientati ai contenuti, agli strumenti ed ai processi di apprendimento, alle teorie e tecnologie della comunicazione rappresenta, dunque, il vero mutamento paradigmatico, ossia il trascinamento dei problemi dell’educazione in un universo paradigmatico differente. La rivoluzione paradigmatica non si colloca tanto nell’interpretazione che ne diamo noi, ma nel passaggio dall’orientamento di tipo oggettuale, che spezza la relazione educativa in oggetti esterni manipolabili, in un orientamento di tipo comunicazionale. Esso considera come fatto rilevante la relazione educativa intesa come interazione comunicativa tra attori entro una scena sociale e può ricomprendere i paradigmi precedenti sulla base di teorie prodotte dagli stessi, collocando i processi di tematizzazione, i ruoli ed i linguaggi dentro la comunicazione educativa stessa”
Dove per “comunicazione” si vuole andare ben oltre la sola comunicazione verbale, ovviamente, perché sappiamo che anche e soprattutto i corpi parlano e, abbiamo detto, anche i sistemi organizzativi, nonché le immagini e tutto ciò attraverso cui, implicitamente, vogliamo trasmettere contenuti e conoscenze.

Nel Blogging Day #educazionEbellezza, Rita Totti, avvocato e mediatrice familiare, infatti narra:

“[…] una dolcissima docente delle scuole medie inferiori  dedicava interi pomeriggi della sua vita a preparare per noi percorsi in immagini che ci mostrassero la bellezza, in senso classico. Quelle lunghe mattinate, in sala proiezioni, a scrutare nel buio dell’aula statue greche, bassorilievi, affreschi e ad ascoltare la ‘prof.’ descriverli, con l’amore e la perizia di una vita dedicata allo studio dell’arte”.

Una docente che io immagino estremamente appassionata all’arte, tanto da in-segnare la stessa passione ai suoi alunni, senza parlarne, perché capace di dare invece voce alle opere d’arte mostrate e tanto amate.

Rimanendo in tema di passione e amore, nel Blogging Day #educazionEamore, Cristina Crippa, formatrice ed orientatrice, pone una distinzione tanto semplice, quanto chiara e diretta, della differenza tra relazione affettiva e relazione educativa. Dice infatti:

“Ho imparato che una relazione d’amore e una relazione educativa sono profondamente diverse. Ho sperimentato che educare qualcuno non è amarlo, ma amare qualcuno è anche educare e farsi educare. C’è una dinamica comune in queste due relazioni umane che non smette di catturare il mio interesse: amare qualcuno, educare qualcuno significa accompagnarlo fuori da sé, senza lasciarlo solo. Fuori da sé, ma dove? Credo in luoghi dove vedere nuovi mondi possibili e rappresentazioni di sé inedite ma accessibili, luoghi in cui realizzare forme di benessere crescente. I luoghi del cambiamento, della trasformazione. In una relazione educativa una persona impara grazie all'altro a prendersi cura di sé e della propria esistenza, a prendersi in carico il proprio stare nel mondo. In una relazione amorosa tutto ciò è reciproco: in fondo amare ed essere amati è potenziare e sviluppare la capacità di amare se stessi. È possibile educare qualcuno all'amore? Credo che un compito certamente educativo sia occuparsi di come far crescere nelle persone la capacità di scegliere, di riconoscere l’altro tra gli innumerevoli incontri che abitano una vita, riconoscerlo non solo come qualcuno da amare e da cui farsi amare, ma piuttosto come qualcuno in cui ricercare forme migliori di sé e a cui aprire lo stesso spazio di ricerca, in noi e attraverso noi.”

Questo accade andando ben oltre la semplice e più immediata comunicazione verbale, imparando a stare in un rapporto interpersonale fatto soprattutto di azioni concrete, che 'parlano'. La stessa autrice però ci regala, al termine del suo articolo, due dialoghi, di cui qui ne riporto uno soltanto, Piccolo dialogo da un amore educato:

“Cosa vuol dire che mi ami? “
“Mi fai sentire come mi vedi tu. Quando mi guardi io sono un essere meraviglioso, e adoro esserlo. Quando non ci sei e non mi guardi, io costruisco quell’immagine di me, vivo cercando di realizzarla. Quando non tornerai più a guardarmi, io conserverò quell’immagine dentro il mio mondo, e continuerò a farla vivere”.
“Ma io non faccio niente di speciale per fare tutto questo…”
“Lo so, tu mi ami e basta. Non è speciale: è solo così.”
“Come fai a saperlo?”
“Vedo questa immagine, in tutta la sua complessità e nei minimi dettagli; i colori, le sfumature, le imperfezioni: mi piace, e finché continuerai a dipingerla, so che mi amerai.”
“Ma io ti amo per quello che sei!”
“Non credo, mi ami per ciò che vedi che potrei essere e diventare: e mi fai credere che posso riuscirci, e io ci riesco.”
“Ci riesci…”
“Sì, il tuo amore mi insegna ogni giorno qualcosa su di me.”
“Cosa hai imparato su di te attraverso il mio amore?”
“Ad avere rispetto e cura per il mio corpo, ad ascoltare i pensieri e i desideri della mia pelle, a sorridere una volta al giorno davanti allo specchio: ho imparato che il mio corpo ha bisogno di attenzione e in cambio può restituirmi benessere e piacere.
A non rincorrere il tempo, a non consumarlo, a viverlo con intensità: ho imparato a non lottare con il tempo, a goderne.
A far fatica, a lavorare duramente per realizzare i miei desideri: ho imparato che ho la forza per ottenere ciò che mi fa stare bene, che sono una persona tenace, che posso farcela.
A sentirmi una persona libera: ho imparato che la libertà è poter scegliere ogni giorno cosa vuoi essere, come vuoi vivere, cosa ti fa stare bene.”
“Sì, vabbè… che esagerazione! Mi fai sentire una specie di Maestro!!! Io ti amo solo perché mi ami: perché quando ti penso sto bene, quando ci sei ancora di più, perché mi piace far cose con te (a parte qualche volta, quando sei insopportabile… allora si che mi insegni anche tu qualcosa di me: quanto so essere paziente…). Io pensavo di averti insegnato altre cose: che stai bene con i pantaloni neri, che i capelli sciolti e gli occhiali ti donano, che ti piace il gelato alla fragola, che hai bisogno di dormire 10 ore ogni notte, che se tieni in ordine le tue cose le trovi più facilmente, che se metti l’orologio avanti non arrivi sempre in ritardo, che se conti fino a dieci prima di dire ciò che pensi a volte è meglio… cose del genere, insomma.”
“Adesso sì che mi sembri la mia Maestra delle elementari, che credeva di avermi insegnato a leggere libri, e non si rendeva conto che mi stava aprendo le porte di un mondo intero: la letteratura!!! Certo, poi ho deciso io di entrare in quel mondo e di esplorarlo, ma non l’avrei potuto fare se lei non me lo avesse mostrato, se non mi avesse fatto credere che ero in grado di andarci e che ci avrei trovato cose meravigliose, se non mi avesse accompagnato un po’…
Ma tu mi amerai per sempre?”
“Francamente non saprei… ciò che diventiamo dentro questo amore però forse sì, rimarrà per sempre. Ci rimarrà questo: sapere come si fa, come si fa un amore.
Ma dobbiamo proprio parlare di questo, oggi…?”

In questo scambio comunicativo verbale, si può rintracciare l’importanza di imparare a governare le parole che si esprimono, quando è importante che all’altro arrivino contenuti scelti e intenzionali.

Io non so se Cristina abbia effettivamente sostenuto questo dialogo con la persona che ama. So però, e per certo, che scriverlo le ha permesso di consolidare i suoi pensieri rispetto a quello che per lei è importante che sia un rapporto d’amore. È proprio questo che la narrazione scritta permette e insegna ed è per questo che in Educazione è importante scrivere e trascrivere le narrazioni “parlate” che colorano le esperienze educative. È quel terzo livello di rielaborazione con cui terminavo l’articolo “Circolaritàcomunicativa. Là dove può stare l’educazione”.

Non sempre si ha tempo, lo so bene, per ritrascrivere le interazioni comunicative avvenute nell’arco di una giornata lavorativa, per chi fa l’Educatore di professione. Non ritengo nemmeno sia importante trascriverle tutte. È l’esperienza dello scrivere e del trascrivere che insegna e che ci permette di ritornare nelle interazioni live, face to face, con maggior consapevolezza di governo della comunicazione. Anche scrivere di esperienze educative, senza riportarne i dialoghi verbali, ha il suo perché autoformativo. Non insegna a gestire meglio lo scambio in diretta con gli educandi, ma insegna a riflettere sulla tipologia e sul valore delle esperienze che, a volte anche spontaneamente e rubando dalla vita che scorre le occasioni che capitano, proponiamo a chi è con noi per imparare qualcosa di nuovo su di sé, sul Mondo e sul suo-proprio-stare-nel-Mondo.

Quando queste esperienze di scrittura avvengono pubblicamente, dobbiamo inoltre sforzarci di essere il più chiari possibili, perché arriveranno ad altri, che se ne faranno ciò che vorranno e potranno, e la chiarezza diventa quindi un elemento di responsabilità dello scrivente.

Se infine, si scrive pubblicamente nel web, dobbiamo anche fare i conti con un pubblico potenzialmente più vasto e con una lettura dello scritto altrettanto potenzialmente immediata. Questo fa sì che, scrivere nel e per il web, porti con sé anche la necessità di imparare a concentrarsi maggiormente sui contenuti che trasmettiamo, che condividiamo, e sulla forma che diamo loro. E questo permette di raggiungere un differenziale di competenza ancora maggiore rispetto alla circolarità comunicativa e alla capacità di pensiero che richiede.


Circolarità comunicativa e fenomeno educativo, quindi, si sostanziano nella medesima struttura sociale. Le comunicazioni veicolano messaggi che formano pensieri e comportamenti. Compito pedagogico è analizzare queste strutture per rendere intenzionale il loro utilizzo non solo ai fini di marketing (in cui il mondo del socioeducativo dovrebbe molto migliorarsi), ma anche e soprattutto per esplorare ed evidenziarne la loro portata educativo/formativa.

La circolarità comunicativa, quindi, come mezzo fondamentale e paradigmatico del fenomeno educativo, all’interno del setting pedagogico (I. Salomone, 1997). È cioè attraverso l’interazione comunicativa tra educatore (che insegna) ed educando (che impara), che si costruisce una relazione orientata all’evoluzione personale: l’educando si forma attraverso le esperienze attraversate con l’educatore, che insegna. L’educatore, si forma, attraverso la gestione pedagogica costante del setting.
Ma anche il lettore si forma attraverso pensieri scritti ‘pensati’ a dovere, e con intenzionalità pedagogica nel nostro caso. Lo scrittore (se anche con finalità educativo/formative) si forma attraverso l’esperienza dello scrivere testi (magari anche pedagogicamente orientati).  


È questa una circolarità comunicativa che, a costo di diventare ridondante, definirei sostanzialmente pedagogica. Snodi pedagogici ha provato a trattarla.


Gli altri blog che partecipano al Blogging Day #pensodunquebloggodue, sono:
La Bottega della Pedagogista, di Vania Rigoni
Ponti e Derive, di Monica Cristina Massola
E di Educazione, di Anna Gatti, con un guest post di Alessia Zucchelli, collaboratrice del blog.
Bivio Pedagogico, di Christian Sarno
Trafantasiapensieroeazione, di Monica D'Alessandro Pozzi
Labirinti Pedagogici, di Alessandro Curti
In Dialogo, di Elisa Benzi
Il Piccolo Doge, di Sylvia Baldessari

giovedì 21 agosto 2014

Pedagogia e organizzazioni aziendali

Viviamo immersi nei sistemi organizzativi. Inutile che vi elenchi scuole, ospedali, imprese lavorative, sistemi di compra e vendita, carceri, partiti, Chiese, servizi.  E poi quelle informali: famiglia, gruppi di amici, di volontariato, Oratori, movimenti partitici, luoghi dello sport, della cultura, del benessere e del tempo libero. Insomma, grandi categorie dentro le quali ognuno di noi, quotidianamente, è immerso.

Da tempo, soprattutto con due colleghe Monica Massola e Anna Gatti, stiamo riflettendo intorno a ciò che il pedagogico può e deve dire alle Organizzazioni. La pedagogia, infatti, veicola saperi che ancora ad oggi rimangono nel sommerso. Un sommerso che non è mentale, inconscio, ma estremamente materiale, corporeo e organizzato
Quando qualcuno mi chiede cosa io faccia di lavoro, sentendomi pronunciare la parola “pedagogista”, la risposta più frequente che fa da eco alle mie spiegazioni si riferisce al fatto che io lavori con i bambini e magari anche con i genitori. Vero, verissimo. Ma non solo. Chi si occupa di pedagogia, infatti, si interfaccia con persone di qualunque età (bambini compresi) e in qualunque ruolo sociale (genitori compresi). Ciò che però il pedagogico guarda e pone sotto la lente di ingrandimento, non sono le persone, ma i processi educativi nei quali queste sono immerse, riferendosi ai contesti di vita di volta in volta da loro frequentati (famiglie, servizi educativi scolastici ed extra-scolastici, luoghi di socializzazione e di compito generici).

Ciò che ancora deve prendere piede in campo pedagogico è la possibilità di sondare, conoscere, analizzare, potremmo dire anche scandagliare, i contesti aziendali. Anch’essi sono luoghi di compito e di socializzazione. Anch’essi sono luoghi organizzativi in cui diversi ruoli sociali si interfacciano con compiti precisi, costruendo esperienze in cui, le persone che li attraversano, imparano qualcosa su di sé  e sull’Altro da sé, in rapporto con il lavoro, la professione, gli obiettivi da raggiungere, i prodotti da creare, manutenere, offrire.

Non c’è da stupirsi dunque, se la pedagogia ha qualcosa da dire anche in questo campo. C’è forse anzi da stupirsi del contrario. Come è possibile che, ancora ad oggi, il pedagogico non si sia legittimato lo sbarco in questi territori?

Mi potrete dire che mi sbaglio, che anche nelle aziende si parla di Formazione. Esiste poi tutto il capitolo di scelta e selezione del personale e gestione delle risorse umane, che io, più propriamente, definirei di orientamento e ri-orientamento organizzativo e professionale. Vero. Ma non è detto che tutto ciò avvenga in un’ottica pedagogica. Anzi, per la mia esperienza, ne sono sicura.

Questo perché, nonostante siano esistiti e probabilmente esistano tuttora, corsi di laurea in Scienze dell’educazione, ad indirizzo Formatori dei sistemi aziendali, la qualità pedagogica di queste professionalità aziendali non ha mai trovato legittimazione. Sistemi di potere, di conoscenza e professionali, avversi? Può essere. La causa principale che io intravedo però, mi dispiace per me e per tutti i miei colleghi, si rifà alla poca temerarietà teorica di chi lavora nel pedagogico. Aspetto che se affiancato alle derive morali che da sempre l’Educazione porta con sé (“facciamo del bene”, “aiutiamo gli altri”) ha allontanato di netto il sapere pedagogico da ogni ambito pur lontanamente aziendale perché basato e motivato dal profitto.

Per me questo è un grosso errore. A cui fa compagnia una scarsa conoscenza epistemologica della scienza pedagogica per cui mi pare sia ancora necessario ribadire con forza che per aiutare gli altri, non serve una scienza di appoggio. Per aiutare gli altri, per far del bene, serve aver tempo a disposizione e buon cuore, guarda caso caratteristiche afferenti all’ambito del volontariato e non di qualche professione. Dopodiché, molte professioni e mestieri hanno come effetto collaterale il fare del bene. Anche un elettricista che sistema guasti nelle abitazioni, o negli ospedali, fa del bene collateralmente, aiuta. Ma nessuno dice che il suo lavoro consiste nell’aiutare gli altri.

Il sapere pedagogico si sostanzia nel governo di processi educativi, attraverso la gestione di setting in cui c’è chi ha la responsabilità di ruolo di insegnare e chi si ritrova nel ruolo di colui o colei che impara. Anche nelle aziende c’è chi insegna e chi impara. Nei corsi di formazione, ma non solo. Esistono ruoli predisposti, per definizione organizzativa e per esperienza lavorativa maggiore, a mostrare le pratiche del mestiere e permettere ai sottoposti, o a chi svolge mansioni differenti, di imparare qualcosa di nuovo, arricchendo la propria professionalità. Arricchimento che, tra l’altro, non è solo di chi impara, ma anche di chi insegna. E questo accade durante la pratica lavorativa quotidiana, senza che il tempo produttivo si fermi in qualche aula formativa.


Non c’è dunque una ragione vera ed epistemologica per cui il pedagogico non possa entrare in ambito aziendale. E, come ci ha insegnato a dire Mel Brooks: si può fare!

giovedì 14 agosto 2014

Circolarità comunicativa. Là dove può stare l'Educazione.

“Le storie fanno parte della vita di ogni giorno: siamo sottoposti quotidianamente a migliaia di stimoli narrativi da parte delle agenzie narrative (televisione, videogiochi, cronaca, ecc...). Le storie, se usate consapevolmente, possono diventare degli straordinari strumenti per mettere ordine e dare un senso alle esperienze, per immaginare il futuro e gestire le scelte, per costruire la propria identità e quella dei gruppi di cui facciamo parte. Le storie sono uno strumento per lo sviluppo delle persone, per l'assunzione di potere e controllo (empowerment) sulla propria vita e sulle proprie scelte.” F. Batini, S. Giusti, Le storie siamo noi

Mi piace iniziare con questa considerazione. Noi siamo fatti delle storie che viviamo, per come le raccontiamo o ci vengono raccontate. A quanti di voi è capitato, a me un milione di volte, di raccontare una propria esperienza e poi portarsi con sé, nei ricordi, più il racconto che ne abbiamo fatto che non i fatti per come sono realmente accaduti? Chiaro, come in tutto, anche in questo ci può essere una deriva patologica, che però non è interessante ora e non interessa a me. Storie d’amore terminano e spesso i due protagonisti hanno memorie differenti di ciò che hanno vissuto e paradossalmente condiviso. Lo stesso accade quando si racconta di un corso di formazione, di un accadimento lavorativo. In generale ce ne accorgiamo ogni volta che raccontiamo la nostra versione dei fatti a terzi, in presenza di persone che sono state testimoni della “nostra” esperienza. Pongo le virgolette al pronome possessivo perché non è un caso che le esperienze siano connotate da caratteri neutrali. Ciò che le tinge di sfumature particolari, è il modo in cui ognuno di noi le vive e le colora.

Quando raccontiamo, compiamo forti selezioni degli accadimenti reali, anche senza volerlo e nemmeno senza dover avere particolari abilità comunicative. Se gli esseri umani sono l’unica specie ad oggi vivente, e conosciuta, che necessita di rappresentarsi ciò che accade nel Mondo, a maggior ragione questo bisogno diventa stringente quando si vive qualcosa in prima persona. “Non puoi sapere come sia andata veramente! Sono io che l’ho vissuta! Io so come è andata!”. È questa una sacrosanta verità, che però rimane incompleta se lasciata a se stessa. La nostra vita è il risultato dell’incontro tra le storie che “ci” raccontiamo con quelle che, di noi e del Mondo, ci raccontano gli altri. Un esempio su tutti, banale forse, ma preciso: quanti ragazzi e ragazze crescono convinti di non essere bravi a disegnare perché “Me l’han sempre detto di non essere buono/a…”. Poi capita, e io ne ho le prove, che gli stessi ragazzi e ragazze cimentandosi, per chissà quali convergenze astrali, nella stessa attività da più grandi, scoprano di avere capacità inaspettate. Quello che gli altri, soprattutto se sono persone affettivamente significative, ci raccontano di noi, ci fanno diventare quel che siamo.

La narrazione delle storie ha molto a che fare quindi con i processi educativi. Tutti noi tendenzialmente viviamo un giorno dopo l’altro e, presi dai mille impegni, difficilmente troviamo il tempo per mettere a fuoco la nostra vita. Il risultato è che, se non riusciamo ad allenare la nostra consapevolezza, abbiamo la forte sensazione che il Mondo vada avanti anche senza di noi, che le cose capitino perché così deve essere, che ci sono cose impossibili da governare. E per certi versi è vero. Per fortuna non possiamo controllare tutto. Se così fosse avremmo una triste vita senza sorprese. Ma allenare la consapevolezza vuol dire trovare quel giusto mezzo tra ciò-che-posso e ciò-che-capita
L’Educazione è l’allenatore in questo gioco. Insegna a mettere a fuoco ciò che abbiamo imparato dalle esperienze che abbiamo vissuto. Ma non solo. Basandosi necessariamente sull’interazione tra due o più individui, permette di raccontarle e raccontarcele, trasforma le esperienze in storie da leggere e rileggere, per far sì che la vita di ognuno possa diventare un libro compiuto, per come ai protagonisti piace. E, se piace (questo è un must dei percorsi di Orientamento), vuol dire che ci appartiene, che è una storia capace di far vibrare le nostre corde e ci permette di comporre nuove parti della colonna sonora dei nostri giorni.

So che l’ambiguità è dietro la porta in questo discorso. Un errore enorme, da parte degli educatori, sarebbe quello di contribuire a inventare storie su di sé, allontanando le persone dal dato di realtà. Questa è una deriva pericolosa che è fondamentale aver sempre ben presente. Lo spettacolo però inizia quando, a partire dai dati di realtà, una persona riesce a costruirsi una storia di sé che le appartenga, imparando a non trascurare le pagine oscure della propria esistenza, a godere di quelle colorate, per poi continuare a scrivere di sé,con tutti gli incontri e le esperienze che compie vivendo.

E c’è poi un importante distinguo da sottolineare. Raccontare storie è differente dal raccontarsele, perché questa seconda declinazione può indicare sia la necessità di raccontarsi storie per rassicurarsi, ma anche il bisogno di allontanare la “verità” dei fatti, perché ci fa male, non riusciamo a sostenerla. Raccontare le nostre storie a qualcuno, invece, ci pone in un percorso di autoconsapevolezza crescente. Ed è qui che trova spazio l’Educazione. Chi ci ascolta può infatti aiutarci a ri-guardare l’esperienza che narriamo, cogliendo, attraverso un’intenzionalità pedagogica, i ruoli che abbiamo rivestito in quella storia, dandoci la possibilità di scegliere nuovamente quei ruoli, in date situazioni o provare a giocarne altri. 
Sfogliare le esperienze vissute, con chi di professione ha il compito di individuare gli scarti di apprendimento possibili, fa sì che anche a posteriori una persona possa mettere a fuoco capacità, competenze, interessi, strategie di azione e di interazione. Un bagaglio di autoconsapevolezze con cui è possibile continuare a vivere con maggior sicurezza e intenzionalità. Lo stesso avviene mentre viviamo un’esperienza nel presente e un educatore ci accompagna ad attraversarla mostrandoci nella contemporaneità dei fatti quello che stiamo imparando.

Esiste poi un secondo livello. Quello che ci permette una narrazione scritta. Porci con carta e penna, o sulla tastiera, per trascrivere una nostra esperienza è un’azione che dischiude svariate possibilità.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Scrivere per altri è un’esperienza che in-segna. Nel momento in cui buttiamo giù pensieri sapendo che qualcun'altro li leggerà, facciamo lo sforzo di rendere comprensibile, leggibile appunto, quell’esperienza. In questo processo, automaticamente, la stessa esperienza si rende più chiara anche per noi. Ci soffermiamo sui particolari, perché siano chiari per chi li leggerà. Ne scopriamo di nuovi. La stessa esperienza si arricchisce, si svelano pieghe di cui prima non conoscevamo l’esistenza. S-piegare a qualcuno indica proprio l’atto di scandagliare le pieghe e dare uniformità alla tela già tessuta.

Esiste anche un terzo livello di rielaborazione. Cosa imparo a narrare di me e delle mie esperienze? E cosa vuol dire imparare a narrare un’esperienza educativa o che parli di Educazione? e scrivere su web implica variazioni?


Il 28 agosto, con il Blogging day #pensodunquebloggodue, Snodi Pedagogici  tenterà di raccontarlo.


venerdì 18 luglio 2014

#pedagogicalert - Il rischio dell'Imbuto. La ricerca della Torre di Pisa


Il tema lanciato a luglio da Snodi Pedagogici è: #PEDAGOGICALERT

"Quali sono le zone oscure dell’educazione?
Quali elementi ci sono nell’educazione e nella pedagogia che, se non vengono valutati, portano l ‘azione educativa ad essere “pericolosa” per chi educa e chi è educato? 
Chi sono i cattivi maestri?
Oppure la pedagogia può come disciplina, citando Marguerite Yourcenar, saper guardare nel buio con disobbedienza, ottimismo e avventatezza e scoprire strade inusitate?"

 Buona lettura.




 #PEDAGOGICALERT - Il rischio dell'Imbuto. La ricerca della Torre di Pisa, di Virginia Fiume.

Aaron Swartz è un nome che potrebbe essere oscuro a molti. Sanno benissimo di chi si tratta gli appassionati di storia del web, le persone che hanno seguito la nascita delle licenze Creative Commons o che sanno che cos'è un Feed Rss. Gli educatori più appassionati alle modalità di accesso alla cultura sanno probabilmente qualcosa in più: Swartz è stato tra gli attivisti dell'Open Access Movement: un movimento costituito da persone che credono che l'accesso agli articoli accademici debba essere libero e gratuito.

Aaron Swartz si è suicidato a 26 anni, l'11 gennaio del 2013. Aaron Swartz rischiava una condanna a 35 anni di prigione per aver scaricato dal database accademico Jstor 4,8 milioni di articoli.

“Perché mi devono insegnare la geometria quando posso leggere un libro di geometria? Perché devo ascoltare la loro versione della storia americana se posso trovare almeno tre fonti diverse che la ricostruiscono in maniera diversa?”. Questa era l'idea di educazione di questo dolce e combattivo genio. La citazione emerge dal racconto del fratello di Aaron, una delle voci che raccontano la vita di Swartz nel documentario The internet's own boy .

Aaron Swartz per me rappresenta il promemoria quotidiano dell'esistenza di un lato oscuro dell'educazione. Quel punto in cui l'educazione smette di assolvere la sua funzione etimologica, il “portare fuori” di ex+ducere, e si trasforma nell'imbuto, in qualcosa che “mette dentro”. L'educatore come qualcuno che infila le idee nella testa degli studenti, invece che favorire lo sviluppo dello spirito critico. Il sistema educativo che inserisce le fonti a cui si dovrebbe attingere per aumentare e condividere la conoscenza in depositi costosissimi, invece che renderle accessibili.

Da dieci anni la mia vita si intreccia con quella di Assoetica, l'organizzazione che si occupa di offrire formazione a manager e professionisti in direzione etica, con cui collaboro come social media editor. E in questi 10 anni di corsi, laboratori, letture, c'è concetto che mi è entrato in testa più di altri: l'asseverazione come sostituta della certificazione . Quest'ultima infatti si basa su criteri assoluti, mentre la prima chiama direttamente in causa l'individuo, la sua storia, il suo percorso.

Cosa c'entra questo con la pedagogia? C'entra. Perché la pedagogia si basa sullo sviluppo di tre saperi fondamentali: il sapere, il saper fare e il saper essere. E per asseverare bisogna saper essere. E l'educatore – per tornare all'idea di educazione di Aaron Swartz – è colui che aiuta a sviluppare gli strumenti per saper essere.

Certo, c'è un rischio molto alto in questo approccio, il rischio di passare da un eccesso di guida e controllo al non avere una guida. Ed è in questa zona di rischio che si gioca la credibilità dell'educatore e del formatore. E se l'educazione è il progetto per una persona, mi piace concludere con l'immagine che Francesco Varanini, presidente della delegazione Lombardia dell'Associazione Italiana Formatori e direttore scientifico di Assoetica, associa al progetto ben riuscito: la Torre di Pisa, la cui bellezza “sta nell’unicità e nell’imperfezione”, di cui parla anche Mauro Scardovelli.

Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E imparare a scegliere con chi farlo.


MINIBIOGRAFIA DELL'AUTRICE

Virginia Fiume, nata nel 1983 a Milano, è antropologa dei media. 
Lavora come content strategist freelance e cura la comunicazione di Assoetica, organizzazione che dal 2002 ha formato manager e professionisti, con docenti di fama internazionale. 
Vive a Vancouver.



Tutti i contributi verranno divulgati dai blogger di Snodi Pedagogicicondivisi e commentati sui diversi social e raccolti a questo link




I blog che partecipano:

Il Piccolo Doge di Sylvia Baldessari
Ponti e Derive di Monica Cristina Massola, primo contributo
Ponti e Derive di Monica Massola, secondo contributo
E di Educazione di Anna Gatti
La Bottega della Pedagogista di Vania Rigoni, primo contributo
La Bottega della pedagogista di Vania Rigoni, secondo contributo
In Dialogo di Elisa Benzi
Labirinti Pedagogici di Alessandro Curti
Tra Fantasia PensieroAzione di Monica D'Alessandro Pozzi
Bivio Pedagogico di Christian Sarno

blogging day fanno parte di un progetto culturale organizzato e promosso da SnodiPedagogici.
Questo avrà termine con l'estate e sfocerà in un'antologia dei contributi che verrà pubblicata sotto forma di ebook, il cui ricavato andrà in beneficenza alla Locanda dei Girasoli 



Una volta finito il percorso di pubblicazione online, i vari autori che hanno preso parte ai BDay, verranno contattati dalla redazione.


martedì 24 giugno 2014

Mettere radici

Le vite vanno, scorrono. Gli anni passano e a un certo punto torni a confrontarti con un fatto che, qualche anno fa, ti ha fatto molto soffrire: ci sono storie impossibili da condividere perché non hanno un terreno comune in cui poter mettere radici. Tu, ragazza quasi trentenne, in preda a un amore insensato, ma allo stesso tempo autentico e profondo. Dopo 5 anni ti ritrovi a pensare che tocca a te mettere radici. Ne sei rimasta emotivamente inconsapevole in questi anni, ma pian piano la matassa aggrovigliata assume un ordine, cercato, voluto, difficile, agognato. 
Alle prese con la tua vita da significare, arriva il giorno in cui dici a te stessa che le tue scelte, seppur sofferte, hanno avuto un senso. Immediatamente anche il presente e il recente passato assumono un senso compiuto. 
Il desiderio di riaprire porte ormai chiuse è forte. Ma indietro non si torna, questa è la Vita. E finché capisci che qualcosa hai potuto imparare, allora va bene. Ti rendi conto di aver lasciato tracce dietro di te, nel bene e nel male. Insomma, ci sei stata e questo per te è importante.
Affiora un'esperienza fondamentale, che hai voluto cacciare via in questi anni, ma ora ti rendi conto di non poterlo fare: la devi accettare, devi amarla. Così per come è stata. È stata la situazione in cui più ti sei sentita sbagliata e contemporaneamente al posto giusto. Capire ora cosa puoi portare via con te è impresa ardua. Ma ora sai che avevi bisogno di quell'esperienza e hai dato la precedenza a te. Tu esisti, hai i tuoi bisogni, le tue passioni. Essere accogliente verso l'Altro, valore assoluto per te, può essere possibile solo se sai dove inizi e dove finisci tu. Disperdersi nell'Altro, invece, toglie l'opportunità di un incontro autentico.

Hai creduto alle esperienze che hai scelto di vivere. Hai creduto poi che queste esperienze non avessero più un senso per te. Oggi sai anche che ci sono esperienze che rifaresti, a distanza di anni, ripulendole magari di una serie di errori che ora vedi chiaramente. E sei felice di averle vissute. Questo vorresti dire con serenità a chi quelle esperienze ha condiviso con te, anche se ora non vogliono o non riescono a riaprire ponti di condivisione. Ci sei stata, hai scelto di starci e ora cominci a essere pronta per scegliere fino in fondo nuove occasioni, nuovi incontri. 
Mettere radici è indispensabile. Si riescono a mettere con serenità e libertà solo quando, però, si è in grado di non adattarsi a un esistente che ha il sapore di necessità e rinuncia, ma si riesce a scegliere con convinzione. Le radici non solo ancorano al terreno, ma facendolo danno possibilità di rigenerarsi ad ogni Primavera e di resistere nei lunghi Inverni.
E se tu, che magari stai leggendo queste mie parole, capisci che le tue radici ti sono costate molto ma sono state essenziali per sopravvivere, sappi che nuova Linfa può arrivare ogni Giorno e che nella Vita si può continuare a sentirsi vivi anche per ciò che si è vissuto, per ciò che le nostre radici possono continuare ad assaporare e non solo per il nutrimento che arriva con un nuovo Giorno e un nuovo Sole. Me l'ha insegnato lei, la giovane donna di cui sto scrivendo. L'ho conosciuta e io ci credo. Da lei ho potuto imparare molto.

venerdì 13 giugno 2014

#educazionEbellezza - Un seme che non cade per caso

Il tema lanciato a giugno da Snodi Pedagogici è: #educazionEbellezza


"Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace. 
Quale posto ha l'educazione al Bello nella nostra vita? Come siamo stati formati e come vogliamo formare i nostri ragazzi alla bellezza? Non è semplice educare a un concetto così soggettivo, ma è necessario, specialmente in un'epoca in cui, si dice, tutto è soggettivo e più nulla ha valore assoluto"

Buona lettura.




#educazionEbellezza - Un seme che non cade per caso, di Rita Totti.

L’educazione al bello inizia nella primissima infanzia. Lo sguardo, l’udito ed ogni percezione sensoriale vanno educati al bello…! Come fare? Rammostrandolo. Il bello è sì un concetto soggettivo, ma affinché si formi un concetto soggettivo sarà – a mio avviso – pur sempre necessario rendere rispetto ad esso dei parametri (seppur generici) di raffronto. Dove possiamo trovare questi parametri? Prima nell’arte, secondo una mia personale valutazione, poi, nella natura, prospettata con contenuti educativo-scientifici.  A me è successo così! Da molto piccola sono stata educata alla bellezza della natura, a scoprire e, quindi, vedere il fascino delle piccole cose spiegate con documentari meravigliosi, nonché attraverso l’ascolto della musica classica e la pratica della danza. Certo non sono mai stata portata per la danza classica, non era nelle mie corde. Tuttavia, le sonorità e l’armonia del corpo, la bellezza assoluta dell’insegnante, il controllo muscolare, la definizione (“pulizia” tecnicamente) dei movimenti  che diventano un tutt’uno con le note, questo getta un seme nell’anima. Poi, nella vita, ho avuto la grande fortuna di incontrare insegnanti “illuminati” che, al di fuori o oltre i programmi ministeriali, hanno dedicato le loro energie a stimolare la nostra attenzione verso la bellezza! Sì, una dolcissima docente delle scuole medie inferiori  dedicava interi pomeriggi della sua vita a preparare per noi percorsi in immagini che ci mostrassero la bellezza, in senso classico. Quelle lunghe mattinate, in sala proiezioni, a scrutare nel buio dell’aula statue greche, bassorilievi, affreschi e ad ascoltare la “prof.”descriverli, con l’amore e la perizia di una vita dedicata allo studio dell’arte, (non per il suo personale compiacimento, ma per una conoscenza che si tramutasse in patrimonio diffuso), mi hanno lasciato un senso di profonda gratitudine per quanto verso me speso e, ad un tempo,  quelle immagini impresse nella mente.  Si crea un legame con l’insegnante quasi “magico”, questi riesce a prenderti per mano e a condurti là, in uno spazio del “senza tempo”, dove il passato e il presente si incontrano per dare vita a quello che potrà essere il futuro di ciascuno di noi. E’ così che si formano i “parametri” di ciò che è bello. Solo se ti hanno condotto da bambino in quei  luoghi, poi, da adulto troverai di nuovo quella via. Forse non sarà proprio  diretta alla medesima  destinazione, forse non sarà più la bellezza ellenica  ad attirare la tua attenzione o la meraviglia della civiltà etrusca, forse sarà semplicemente un tramonto o il sorriso di un’anziana signora che ti siede accanto sull’autobus, ma saprai cogliere la bellezza, questa volta dando ad essa il tuo “personalissimo” significato.  Allora, anche la vita, la tua vita, quella di ogni giorno, di ogni singolo momento – pur non raggiungendo magari la magnificenza degli antichi fasti – sarà comunque colorata della tua particolare tonalità di luce.
Questo “percorso” educativo è un qualcosa che i genitori non dovrebbero dimenticare, né delegare solo all’esterno della famiglia e, quindi, principalmente alla scuola. Forse tra le varie attività che assillano i pomeriggi dei nostri ragazzi sarebbe bello includere un “corso di belle arti” dove non si dipinga “in proprio”, ma si guardi chi prima di noi ha saputo -nei tempi- creare il bello, il veramente sublime. Non è impossibile, … è sufficiente una brava insegnante (magari privata) appassionata e “illuminata” quale “precettore” e “allievi” disposti a lasciarsi contaminare l’anima per poter un giorno aprirsi al mondo con maggior grazia.
Nè i genitori dovrebbero dimenticarsi di questo nelle varie fasi della loro vita matrimoniale, felice o infelice che sia. Anzi, proprio nei momenti di maggiore difficoltà credo che l’anelito al bello sia una risorsa da impegnare perché esso, da sempre, innalza le umane capacità.






MINI BIOGRAFIA DELL'AUTRICE
Dott.ssa Rita Totti –

Mediatrice familiare e Avvocato civilista, professione questa ultima che esercito dal 1999 in Bologna.






I Blogging Day fanno parte di un progetto culturale organizzato e promosso da Snodi Pedagogici.

Questo avrà termine con l'estate e sfocerà in un'antologia dei contributi che verrà pubblicata sotto forma di ebook, il cui ricavato andrà in beneficenza alla "Locanda dei Girasoli" (http://www.lalocandadeigirasoli.it/ )

Una volta finito il percorso di pubblicazione online, vari autori che hanno preso parte ai BDay, verranno contattati dalla redazione.

Gli altri blog che partecipano al Blogging Day #educazionEbellezza sono:

Il Piccolo Doge, di Sylvia Baldessari
Ponti e Derive, di Monica Cristina Massola
E di Educazione,di Anna Gatti
Bivio Pedagogico, di Christian Sarno
InDialogo, di Elisa Benzi
Labirinti Pedagogici, di Alessandro Curti (primo articolo)
Labirinti pedagogici, di Alessandro Curti (secondo articolo)
Trafantasiapensieroazione, di Monica D'Alessandro Pozzi