“Le storie fanno parte della vita di ogni
giorno: siamo sottoposti quotidianamente a migliaia di stimoli narrativi da
parte delle agenzie narrative (televisione, videogiochi, cronaca, ecc...). Le
storie, se usate consapevolmente, possono diventare degli straordinari
strumenti per mettere ordine e dare un senso alle esperienze, per immaginare il
futuro e gestire le scelte, per costruire la propria identità e quella dei
gruppi di cui facciamo parte. Le storie sono uno strumento per lo sviluppo
delle persone, per l'assunzione di potere e controllo (empowerment) sulla
propria vita e sulle proprie scelte.” F. Batini, S. Giusti, Le storie siamo noi.
Mi piace iniziare con questa
considerazione. Noi siamo fatti delle storie che viviamo, per come le
raccontiamo o ci vengono raccontate. A quanti di voi è capitato, a me un
milione di volte, di raccontare una propria esperienza e poi portarsi con sé,
nei ricordi, più il racconto che ne abbiamo fatto che non i fatti per come sono
realmente accaduti? Chiaro, come in tutto, anche in questo ci può essere una
deriva patologica, che però non è interessante ora e non interessa a me. Storie
d’amore terminano e spesso i due protagonisti hanno memorie differenti di ciò
che hanno vissuto e paradossalmente condiviso. Lo stesso accade quando si
racconta di un corso di formazione, di un accadimento lavorativo. In generale
ce ne accorgiamo ogni volta che raccontiamo la nostra versione dei fatti a
terzi, in presenza di persone che sono state testimoni della “nostra”
esperienza. Pongo le virgolette al pronome possessivo perché non è un caso che
le esperienze siano connotate da caratteri neutrali. Ciò che le tinge di
sfumature particolari, è il modo in cui ognuno di noi le vive e le colora.
Quando raccontiamo, compiamo forti
selezioni degli accadimenti reali, anche senza volerlo e nemmeno senza dover
avere particolari abilità comunicative. Se gli esseri umani sono l’unica specie
ad oggi vivente, e conosciuta, che necessita di rappresentarsi ciò che accade
nel Mondo, a maggior ragione questo bisogno diventa stringente quando si vive
qualcosa in prima persona. “Non puoi sapere come sia andata veramente! Sono io
che l’ho vissuta! Io so come è andata!”. È questa una sacrosanta verità, che
però rimane incompleta se lasciata a se stessa. La nostra vita è il risultato
dell’incontro tra le storie che “ci” raccontiamo con quelle che, di noi e del
Mondo, ci raccontano gli altri. Un esempio su tutti, banale forse, ma preciso:
quanti ragazzi e ragazze crescono convinti di non essere bravi a disegnare
perché “Me l’han sempre detto di non essere buono/a…”. Poi capita, e io ne ho
le prove, che gli stessi ragazzi e ragazze cimentandosi, per chissà quali
convergenze astrali, nella stessa attività da più grandi, scoprano di avere
capacità inaspettate. Quello che gli altri, soprattutto se sono persone
affettivamente significative, ci raccontano di noi, ci fanno diventare quel che
siamo.
La narrazione delle storie ha
molto a che fare quindi con i processi educativi. Tutti noi tendenzialmente
viviamo un giorno dopo l’altro e, presi dai mille impegni, difficilmente
troviamo il tempo per mettere a fuoco la nostra vita. Il risultato è che, se
non riusciamo ad allenare la nostra consapevolezza, abbiamo la forte sensazione
che il Mondo vada avanti anche senza di noi, che le cose capitino perché così
deve essere, che ci sono cose impossibili da governare. E per certi versi è
vero. Per fortuna non possiamo controllare tutto. Se così fosse avremmo una
triste vita senza sorprese. Ma allenare la consapevolezza vuol dire trovare
quel giusto mezzo tra ciò-che-posso e
ciò-che-capita.
L’Educazione è
l’allenatore in questo gioco. Insegna a mettere a fuoco ciò che abbiamo imparato
dalle esperienze che abbiamo vissuto. Ma non solo. Basandosi necessariamente
sull’interazione tra due o più individui, permette di raccontarle e
raccontarcele, trasforma le esperienze in storie da leggere e rileggere, per
far sì che la vita di ognuno possa diventare un libro compiuto, per come ai
protagonisti piace. E, se piace (questo è un must dei percorsi di Orientamento), vuol dire che ci appartiene,
che è una storia capace di far vibrare le nostre corde e ci permette di
comporre nuove parti della colonna sonora dei nostri giorni.
So che l’ambiguità è dietro la
porta in questo discorso. Un errore enorme, da parte degli educatori, sarebbe
quello di contribuire a inventare storie su di sé, allontanando le persone dal
dato di realtà. Questa è una deriva pericolosa che è fondamentale aver sempre
ben presente. Lo spettacolo però inizia quando, a partire dai dati di realtà,
una persona riesce a costruirsi una storia di sé che le appartenga, imparando
a non trascurare le pagine oscure della propria esistenza, a godere di quelle
colorate, per poi continuare a scrivere di sé,con tutti gli incontri e le
esperienze che compie vivendo.
E c’è poi un importante distinguo
da sottolineare. Raccontare storie è differente dal raccontarsele, perché questa seconda declinazione può indicare sia
la necessità di raccontarsi storie per rassicurarsi, ma anche il bisogno di allontanare
la “verità” dei fatti, perché ci fa male, non riusciamo a sostenerla.
Raccontare le nostre storie a qualcuno, invece, ci pone in un percorso di
autoconsapevolezza crescente. Ed è qui che trova spazio l’Educazione. Chi ci
ascolta può infatti aiutarci a ri-guardare l’esperienza che narriamo,
cogliendo, attraverso un’intenzionalità pedagogica, i ruoli che abbiamo
rivestito in quella storia, dandoci la possibilità di scegliere nuovamente quei
ruoli, in date situazioni o provare a giocarne altri.
Sfogliare le esperienze
vissute, con chi di professione ha il compito di individuare gli scarti di
apprendimento possibili, fa sì che anche a posteriori una persona possa mettere
a fuoco capacità, competenze, interessi, strategie di azione e di interazione. Un
bagaglio di autoconsapevolezze con cui è possibile continuare a vivere con
maggior sicurezza e intenzionalità. Lo stesso avviene mentre viviamo un’esperienza
nel presente e un educatore ci accompagna ad attraversarla mostrandoci nella contemporaneità
dei fatti quello che stiamo imparando.
Esiste poi un secondo livello. Quello
che ci permette una narrazione scritta. Porci con carta e penna, o sulla
tastiera, per trascrivere una nostra esperienza è un’azione che dischiude
svariate possibilità.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Scrivere per altri è un’esperienza
che in-segna. Nel momento in cui
buttiamo giù pensieri sapendo che qualcun'altro li leggerà, facciamo lo sforzo
di rendere comprensibile, leggibile appunto, quell’esperienza. In questo processo,
automaticamente, la stessa esperienza si rende più chiara anche per noi. Ci soffermiamo
sui particolari, perché siano chiari per chi li leggerà. Ne scopriamo di nuovi.
La stessa esperienza si arricchisce, si svelano pieghe di cui prima non
conoscevamo l’esistenza. S-piegare a
qualcuno indica proprio l’atto di scandagliare le pieghe e dare uniformità alla
tela già tessuta.
Esiste anche un terzo livello di
rielaborazione. Cosa imparo a narrare di me e delle mie esperienze? E cosa vuol
dire imparare a narrare un’esperienza educativa o che parli di Educazione? e scrivere su web implica variazioni?
Il 28 agosto, con il Blogging day
#pensodunquebloggodue, Snodi Pedagogici tenterà di raccontarlo.
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