venerdì 18 settembre 2015

#storia8: la meta che segnò il più bell'inizio

Difficile aprire questa pagina della mia storia professionale. Difficile ma bello. E dolce. E importante.

Mi ricordo bene quando arrivò la proposta della prima collaborazione ufficiale con l’allora Studio Dedalo di Milano, luogo in cui mi sono diplomata post lauream in Consulenza pedagogica. È qui che ho assorbito la fondamentale differenza tra apprendere e imparare. È qui che ho imparato dapprima il mestiere di Educare e dove poi ho compreso a fondo il ruolo della consulenza pedagogica e ho iniziato a praticarla. È qui che ho consolidato i fondamenti paradigmatici della Scienza pedagogica. È qui che mi piaceva farmi prendere in giro da compagni e docenti che mi appellavano come la Pasdaran dell’Educazione e che ho cominciato a fare i conti con la mia esagerazione in tema di passioni.

Nell’anno e mezzo di collaborazione ho preso parte a tre progetti consulenziali, di formazione, per tre Organizzazioni del non profit. Sorrido ora nel ripensare a quanto ero emozionata nell’affrontarli. Oggi macino consulenze, formazioni e progettazioni, ma allora per me era l’inizio simbolico della mia professione. Per questo ripenso a quel tempo con dolcezza, perché mi rivedo agli esordi e sento chiara nella pelle e nella testa l’energia che ci ho messo. Scosse adrenaliniche da augurare a chiunque!

Dopo qualche mese dall’inizio, ho fissato un giorno in agenda per lo Studio. Era il lunedì. Mentre nel resto della settimana attraversavo (come oggi) in lunga e in larga la Martesana facendo tappa nei vari servizi educativi e sociali per Cooperativa Milagro.

Ma il lunedì si stava in Studio e si ragionava di Pedagogia interazionale e della sua evoluzione, si progettavano conferenze e svariati eventi culturali, compresi i primi tentativi (per lo Studio) di presenza on line. Mi nutrivo di quei momenti come fossero pane.

Quando arrivò la notizia che lo Studio Dedalo avrebbe chiuso i battenti, il senso di smarrimento fu grande.




Uno stralcio del logo di Studio Dedalo, preso dalla pagina di Facebook su cui si annuncia la chiusura dell'impresa, dopo 25 anni di lavoro e di ricerca in campo pedagogico.









Oggi posso dire che per me tuttosommato è stata un fortuna. Per come ero fatta, ho avuto bisogno di uno strappo forte dai Maestri per potermi legittimare in pieno la mia autonomia professionale.

E non solo. Negli anni mi sono resa conto di quanto, nel mio lavoro, abbia più valore lasciare che siano le esperienze ad in-segnare, i ruoli ad interazionarsi, tenendo la persona che siamo sullo sfondo, per dare possibilità di libertà a coloro che accompagniamo per un tratto di strada.


E do la buonanotte all’allieva che sono stata e a tutte le persone mi hanno incontrata in questi anni come educatrice, formatrice e consulente pedagogica.

venerdì 31 luglio 2015

#storia8: Tempo di vacanza, tempo di passioni

Oggi è il mio ultimo giorno lavorativo, prima delle tanto agognate ferie, che passerò tra mare, fiume, città, amici e famiglia, campagna e magari anche un poco di montagna.

Alcuni impegni di lavoro mi sono saltati all’ultimo oggi e sono stati rimandati a settembre. Ne approfitto quindi per scrivere. Che chi mi conosce sa essere una mia passione.

Purtroppo non sono riuscita quest’anno a ricavarmi spazi fissi in agenda per farlo. Perché io non sono quella da blocco dello scrittore, quando mi siedo davanti un tavolo e le dita poggiano sulla tastiera del netbook, vanno, spesso da sole. Sarebbe bello quindi avere almeno un po’ di tempo fisso a settimana per buttar giù qualche pensiero. Così avrei voluto fare a marzo, quando vi avevo promesso che avrei fatto il possibile per scrivere un articolo a settimana, sulle mie esperienze professionali.

Non ce l’ho fatta, ma agosto potrà essere un buon mese per recuperare e poi, da settembre, ricomincia l’anno lavorativo con i buoni propositi, tra cui tornerà, primo in fila: scrivi una volta a settimana! E vedremo come andrà.

La scrittura non è la mia unica passione. Anche la pedagogia mi fa battere il cuore. Mi fa ridere mio marito quando mi vede assortita, e non bado a ciò che mi sta raccontando in quel momento, e mi dice: ‘ma la pianti di pensare alla tua pedagogia? Mi ascolti?’. Sì, analizzare gli avvenimenti con sguardo pedagogico mi ha preso quando ho iniziato l’Università e credo non mi abbia mai mollato.

Per questo, nel lontano…credo…2006 o giù di lì, quando Cristina Palmieri, docente all’epoca in Pedagogia della disabilità e dell’integrazione (Scienze dell'educazione, Milano - Bicocca), mi ha chiesto di affiancarla come cultrice della materia per l suo insegnamento, ho accettato senza pensarci un attimo, anche sapendo che sarebbe stato un incarico totalmente gratuito, che avrei dovuto giostrarmi in aggiunta ai lavori che già avevo e che mi permettevano anche un guadagno economico.



L’immagine è stata tratta dal film Into the wild, di Sean Penne liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera






Sono rimasta al suo fianco per tre anni. Ho esaminato studenti e studentesse, li ho seguiti nella scrittura delle tesi, partecipando anche alla loro discussione come correlatrice e ho fatto qualche comparsa in alcune lezioni della Professoressa, che mi ha affidato pezzi di lezione. Era per me bellissimo accompagnare i futuri educatori nel cogliere il nucleo di quella che sarebbe stata la loro professione: difficile, nascosta dietro alle pieghe delle relazioni di aiuto naturali, bersagliata da altre scienze umane, affini ma non specifiche, non necessarie all'Educazione come la pedagogia. Una professione potente e ben definita se messa a fuoco con attenzione e perseveranza tramite quello che a me piace chiamare ‘lo sguardo pedagogico’. Ricordo di aver fatto fare a quegli studenti tanta fatica, ma anche di aver loro mostrato chiaramente il pedagogico, così da poterlo scegliere davvero, oppure da sentirsi in diritto, e forse anche in dovere, di navigare per altri mari professionali.

Avrei potuto, al termine di questi tre anni, concorrere per entrato in Dottorato. Ricordo di aver cominciato a studiare per il concorso, ma poi ho avuto il dubbio che non sarei riuscita a portare contemporaneamente avanti il lavoro nel Terzo settore, come invece per me era importante fare e allora ho rifiutato l’occasione.

Ad oggi non so dirvi, se ho fatto la scelta giusta. Per come sono fatta sarei probabilmente riuscita a tenere insieme capre e cavoli, con un grosso dispendio energetico, ma con altrettante soddisfazioni. La storia è diventata un’altra e ora sono quella che sono, anche per la strada che ho scelto, essendo arrivata, allora, a quel bivio.

Ciò di cui so di non essermi pentita è di aver portato nel lavoro che quotidianamente svolgo nei servizi educativi o nel loro coordinamento, ma anche nelle consulenze e nei progetti formativi che faccio, il rispetto del paradigma pedagogico, che rende il mio lavoro una professione preziosa, che sa far crescere, imparare e insegnare, trasmettere e sperimentare, sentire e fare, conoscersi e scegliere, riorganizzarsi e ripartire.

Tutto ciò per me è straordinario. Emozionante. E termino questo anno lavorativo, stanca morta, ma con un senso di pienezza che mi dà pace e serenità.

Auguro a tutti voi buone vacanze. Che ognuno di voi possa fare il bilancio tra bisogni e desideri e riposarsi un po’, per poi ricominciare la propria strada, qualunque essa sia!

Ah, per la cronaca: quest’anno, con le mie due socie di Metas, ho ripreso a collaborare con l’Università, con la cattedra di pedagogia generale e sociale del Prof. Sergio Tramma. Forse quindi rinunciare al Dottorato non è stata una scelta definitiva di distacco dal mondo accademico, ma solo un arrivederci a quando sarei stata più pronta!

martedì 2 giugno 2015

adeguamento alla Cookie Law

In attesa di capire se con blogger c'è bisogno di adeguarsi alla normativa, oppure se il tutto è già stato sistemato automaticamente e conformemente alla legge, posto questo avviso. E poi quando capirò meglio, capirò anche se sistemare questo avviso diversamente, oppure eliminarlo:


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consulta il testo di legge

#storia7: aggiungi un posto...in classe

Oggi, 2 giugno, ho lavorato da casa per recuperare il lavoro che avevo in arretrato. Non è stato facile. La tentazione di chiudere tutto e scappare al mare, dove il marito si sta passando una settimana di riposo, è stata forte. Ma ha vinto il bisogno che avevo di mettere ordine tra tutti i pezzi di lavoro che ho. Mi ha fatto compagnia la mia cagnolona, con cui mi sono concessa due giri in campagna, per staccare il cervello e rigenerarmi.

L’anno scorso, in questi giorni, stavo chiudendo un progetto a cui avevo lavorato tutto l’anno. Si chiamava IES, che sta per interventi educativi scolastici.

Un bel progetto, iniziato tre anni prima, a cui io sono subentrata nella sostituzione di una collega andata in maternità. Il progetto era pensato per supportare gli alunni DSA, potenziando le loro capacità di studio e di adattamento alla didattica. L’anno scorso però, in occasione dell’entrata in vigore della normativa sui BES, il progetto ha preso nuova forma: il mio compito è stato quello di incontrare gli insegnanti di ogni classe, di un intero plesso scolastico, analizzare la domanda di bisogno presente e realizzare interventi in classe che andassero a supportare questo bisogno.

Insieme poi alla coordinatrice del progetto, che teneva i rapporti con il servizio sociale, e una collega psicologa che ha gestito i tavoli Bes e interventi specifici per le sue competenze, il lavoro è stato molto interessante e su più livelli.

Lo scopo era quello di permettere alla scuola di appropriarsi del vero senso per cui i Bes sono stati pensati: includere ogni alunno e alunna nella didattica quotidiana, evitando, nel tempo, di dover ricorrere a specialisti di ogni tipo nella presa in carico di qualche particolarità, perché la scuola, può realmente includere.

E così, a partire dal lavoro fatto nelle classi, io ero là per aiutare gli insegnanti a riappropriarsi del senso educativo profondo che sta al cuore dell’istruzione.

È stata un’esperienza molto interessante, ma difficile. Su tutti noi piovono leggi e normative che non siamo pronti ad assumere con facilità. Alcune insegnanti mi richiedevano di prendere in carico il loro bisogno, per poter essere alleggerite nelle fatiche quotidiane. E non è stato semplice mostrare loro il senso della mia presenza.

Mi sono chiesta il perché molto spesso, durante e dopo questa annualità. Sicuramente in équipe abbiamo avuto problemi organizzativi che non hanno favorito il lavoro. Banalmente io dovevo incastrare la mia presenza a scuola in orari dettati dalla mia agenda, che non sempre sono stati quelli più utili per svolgere il lavoro. Poi ci sono state le consuete resistenze del corpo insegnante, che fatica a guardare una figura esterna come possibilità di essere accompagnati nella didattica quotidiana, approfittando di una pedagogista che, per sua specificità professionale, è capace di formare alunni e insegnanti, mentre il lavoro didattico si attua. Non serve fare parentesi nelle normali giornate di lezione. Vince così l’abitudine, per cui affidare i famosi ‘casi particolari’ e poter seguire meglio il resto della classe.

Ma è proprio pensare di dover seguire ‘il resto’ che non quadra, se si analizza la situazione da un punto di vista pedagogico. La scuola ha come proprio oggetto di lavoro quello di far incontrare il sapere codificato dall’umanità con persone in crescita. Andando a scuola ogni persona può capire ciò che le piace e immaginarsi una vita possibile per sè. Può capire quale parte di quel sapere gigante e globale voler approfondire e, man mano, pensarsi in un mestiere o in una professione, in cui realizzare un gran pezzo di sé.

Non esiste ‘un resto’, dunque. Se a scuola ci devono andare tutti (e meno male!), tutti hanno diritto di godere di questo percorso.

Ben inteso. So bene che la scuola non versa in una situazione facile. So bene che fare gli insegnanti oggi è un compito eroico, perché si arranca nelle fatiche e il valore dato nei secoli alla scuola sta perdendo quota. Lo so anche perché, per me che ho scelto di stare nel mondo educativo primariamente in ambito extra-scolastico, è normale purtroppo partire dalla consapevolezza che l’Educazione sia sempre considerata, dal mondo ‘produttivo’ come cosa poco importante. Ma è a partire da qui che, unendo le forze, si può trovare lo stimolo per riprendere a guardare lontano. Non credete?

Istruzione ed educazione sono due facce della stessa medaglia che si chiama Formazione. Il sapere pedagogico, che coltivo quotidianamente, me lo ricorda ad ogni piè sospinto, sia che io lavori dentro la scuola, sia che io lavori fuori, e mi aiuta a centrare il bersaglio di ogni mia azione professionale.

Aggiungi didascalia



L’immagine è stata tratta dal film American Sniper, di Clint Eastwoode liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera








Voglio terminare questo 2 giugno, festa della Repubblica, ricordandomi e ricordandovi che:

Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 34.
La scuola è aperta a tutti.
[…]

lunedì 11 maggio 2015

#storia6: Giri di Prova

Oggi sono in vena di porvi e di pormi una domanda importante, a partire dal fenomeno della dispersione scolastica, su cui ho lavorato da fine 2008 fino all’anno scorso.

Ma che cos’è per me la dispersione scolastica?

Mentre ero in quelle varie faccende affaccendata, ho capito che la dispersione scolastica, vista come dato tecnico e statistico, impedisce di cogliere appieno il fenomeno. Che, come sappiamo, è sempre più in espansione.

Io vedo la dispersione scolastica come la punta dell’iceberg di una realtà molto più complessa: una situazione di vita che non permette ai ragazzi e alle ragazze di immaginarsi un proprio posto nel mondo.

Un bel problema dunque. E credo che se al posto dell’aggettivo ‘scolastica’ mettessimo ‘esistenziale’, avremmo maggiori coordinate di pensiero e progettazione . Quello che ho imparato in questi  11 anni di lavoro è che in Educazione le semplificazioni delle questioni non paga mai. Problematizzare e complessificare comporta fatica, ma permette anche di cogliere sfumature di senso imprescindibili per darsi coordinate di azione utili ed efficaci.

E così, facendo prima l’educatrice in un servizio chiamato ‘Scuola bottega’, per poi, dopo uno stop amministrativo di un anno, coordinarlo per i successivi due, con i miei colleghi e in collaborazione con Enaip Lombardia, abbiamo gestito un progetto in cui,i ragazzi e le ragazze che lo frequentavano (e i numeri erano altissimi: siamo arrivati in un’annualità ad avere un’ottantina di utenti), potevano sperimentarsi in laboratori di mestiere ed essere accompagnati in percorsi educativi individuali e di gruppo, alla ricerca del proprio saper fare. Ma non solo: abbiamo con loro lavorato perché riuscissero a recuperare quella dimensione del sognarsi che deve appartenere all’adolescenza e alla giovane età. Perché sappiamo che un must orientativo per eccellenza è che siamo capaci di fare meglio quello che più ci piace.

Anche dopo la fine dei finanziamenti regionali per due annualità e a regime ridotto, solo con Cooperativa Milagro, abbiamo continuato a lavorarci. Siamo riusciti a garantire alcuni laboratori esperienziali, collaborando con Afol, alcune esperienze di tirocinio e borsa lavoro, ma anche iscrizioni a nuovi percorsi scolastici, o sostegno per terminare quelli in corso. Abbiamo svolto bilanci esperienziali e di competenze, non solo tramite colloqui, ma costruendo esperienze concrete in cui permettere a ragazzi e ragazze di guardarsi e provare a scegliere.

Ma come è possibile capire cosa ci piace, quando il pressing sociale ci impedisce di collocarci nella nostra propria dimensione esistenziale? E con gli adulti che ci dicono che la scuola oggi vale meno, perché tanto poi non c’è un posto di lavoro che mi accoglierà? E, al di là di ciò che sarà di me in futuro, che cosa la dimensione di dispersione in cui oggi sono immerso e immersa mi impedisce di conoscere e sperimentare?
Tutto sommato sono queste domande attraversabili in qualsiasi servizio educativo, sia per giovani che per adulti, per disabili o meno. Perché queste sono, come dicevo qualche riga fa, domande esistenziale. E l’esistenza non si fa incatenare da target di utenza con cui classifichiamo i servizi. Ma non possiamo nemmeno richiedere ad ogni servizio di occuparsi di tutto ciò che riguarda una persona. E la selezione delle tematiche da trattare è un valore pedagogico da agire e da insegnare.

Per questo, nel corso degli ultimi due anni, con la mia cooperativa ho cercato di formulare un progetto ‘leggero’. Si chiama Warm up: giri di prova contro la dispersione. È un progetto leggero nella forma e nei costi, che si offre di affiancare ragazzi e ragazze, che sono già in carico ad altri servizi, per poter approfondire con loro la dimensione di dispersione in cui si trovano. Fare qualche giro, che può durare dai tre mesi all’anno di durata per poche ore a settimana, per ritrovare quelle coordinate di orientamento perse a causa dei problemi più disparati.




L’immagine è stata tratta dal film Rush, di Ron Howard, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera















Warm up ad oggi non ha ancora avuto possibilità di attuazione. Contattati per tre situazioni, nessuna attivazione è partita perché la domanda di presa in carico arriva sempre troppo tardi e la vita ha già portato altrove questi ragazzi. In un caso di questi, ha vinto l’andare all’estero a cercar fortuna, negli altri due hanno vinto le fatiche. Sì, proprio quelle fatiche esistenziali che poi diventano troppo ingombranti anche solo per aderire ad un progetto educativo. E gli adulti mollano.

Vi lascio con una domanda: perché la deriva di arrivare troppo tardi si sta diffondendo a macchia d’olio con le situazioni di dispersione scolastica? Cosa non vediamo? Cosa l’Italia si sta perdendo?


Perché quello che perdono i singoli ragazzi è chiaro e l’abbiamo tremendamente sotto gli occhi ogni giorno.

martedì 14 aprile 2015

#storia5: proteggere i contesti per centrare il pedagogico

Dopo una pausa dovuta a festività e a qualche imprevisto di vita, ritorno a scrivere in questo processo di narrazione delle mie esperienze professionali.

Uno degli abiti che professionalmente indosso è quello di coordinatrice di servizi educativi per la Tutela minorile.
Sto parlando di educativa domiciliare, spazi neutro, mediazioni educative, tutoring, centri diurni educativi , incontri protetti e altre azioni e servizi educativi che di volta in volte possono essere attivati.

Tutti questi servizi sono accomunati dall’essere servizi territoriali. Operano quindi nel territorio in cui i minori e le loro famiglie vivono. E al di là delle specificità che contraddistinguono ognuna di queste tipologie di intervento, quando si lavora in Tutela si lavora per proteggere qualcuno e qualcosa.





L’immagine è stata tratta dal film Polisse, diretto e interpretato da Maïwenn, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera







Ma chi e che cosa proteggere?

Il lavoro educativo in questi servizi ha origine dall’impianto legislativo che protegge i minori, e per questo si chiama Tutela minorile, ma il nostro lavoro ha bisogno di trovare percorsi propri per esprimersi al meglio.

A livello educativo dunque, ciò che c’è da proteggere è l’esperienza educativa che si propone: cosa ha da imparare un minore che vive in un nucleo familiare fragile? E cosa deve imparare la sua famiglia?

Vi faccio alcuni esempi: per chi vive in queste situazioni di difficoltà, c’è spesso bisogno di imparare a crescere come individui, giovani e adulti, che non hanno avuto tutte le fortune di questo mondo; conoscere e accettare le particolarità del proprio nucleo familiare, salvando le proprie possibilità di riscatto esistenziale; che nessun genitore è perfetto, ma che l’importante è interrogarsi sulle proprie modalità genitoriali; immaginarsi il tipo di famiglia che si vorrà costruire e se si avrà voglia di costruirla; cosa sbaglio nell’interazione con mio figlio o con i miei genitori e quali altre possibilità relazionali ho a disposizione e posso cogliere; come faccio a essere genitore anche se i rapporti con il mio partner si sono interrotti bruscamente, a tal punto che si è valutato necessario l’intervento dei servizi sociali; ricordarsi che esiste un mondo fuori dalla 4 mura domestiche e che, se all’interno si fa fatica a vivere, il mondo fuori può dare possibilità di vita.

Il lavoro educativo in Tutela minorile ha bisogno di potenziare questa visione sociale delle proprie azioni. Un conto è rispettare la privacy delle persone in carico ai servizi sociali, un conto è rinunciare alla dimensione sociale delle azioni educative. Perché l’educativo perde il suo senso più profondo se si rinchiude tra le 4 mura. Persino l’educazione naturale ha senso perché ‘ciò che si impara in casa’ servirà poi per essere parte del mondo. E l’educazione professionale non può dimenticarsene.

È difficile, certo, gironzolare per le vie del paese o della città con un educatore, che non si sa nemmeno mai come presentare, perché farlo vuol dire lavare i propri panni sporchi in piazza. È prezioso l’aiuto che l’educatore stesso può dare in questi momenti, capendo di volta in volta quanto esporsi ed esporre e quanto far passare inosservato, proteggere appunto. Ma è anche di valore insegnare alla società che tutti possono affrontare fatiche e aver bisogno di aiuto. E che non si è persone peggiori se si ha bisogno, ma che ci vuole tanto coraggio nel farsi aiutare. In un mondo in cui è necessario figurare sempre come i primi e i migliori, il lavoro educativo in Tutela minorile può insegnare molto.

Come coordinatrice pedagogica lavoro attualmente con due équipe e 8 educatori in totale. Il mio compito consiste nell’accompagnare ognuno di questi colleghi nelle pratiche e nelle scelte educative che devono compiere quotidianamente. Aiutarli a distinguere ciò che è emergenza, e capire come e se attivarsi di conseguenza, e cosa invece rientra nella ‘normalità’ di vite affaticate, che hanno bisogno di un supporto ma anche di imparare a convivere con le proprie fatiche, sviluppando man mano competenze di resilienza e consapevolezza delle proprie condizioni e delle potenzialità che noi abbiamo visto in loro e abbiamo il compito di mostrare.

Non è facile entrare in case altrui e vestire il ruolo educativo. Ci si sente di troppo, si sente ogni giorno la fatica che facciamo fare. Ma visto che ci siamo è necessario far fruttare le scomodità che generiamo, per poter salutare il più in fretta possibile i nuclei familiari che spesso, nel frattempo, hanno imparato ad accettarci.

Il ruolo di coordinamento che rivesto ha anche il dovere di far incontrare il mandato sociale con il mandato pedagogico. Il primo è il motivo per cui i servizi sociali chiedono l’attivazione dell’intervento educativo. Il secondo è il motivo per cui queste famiglie hanno bisogno di un educatore e non di altri esperti o di semplici controllori e osservatori. Il mandato pedagogico si sostanzia nella domanda cosa ha bisogno di imparare questo nucleo familiare? Che cosa possiamo insegnare loro? Quale intervento educativo, tra i tanti di cui dispone la Tutela minorile, è giusto attivare? Qual è il modello pedagogico che caratterizza la cooperativa sociale per cui lavoriamo?

E gironzolo quindi settimanalmente tra i servizi sociali, con o senza educatori, per continuare a rendere sempre più prossimi gli ideali di intervento e di scelte pedagogiche con le possibilità reali che ci sono. È un incontro tra culture professionali quello che avviene ogni volta che mi siedo davanti, o di fianco, ad assistenti sociali e psicologhe o psicologi della Tutela. Capita di non essere d’accordo, che il pedagogico venga visto come un lusso che non ci si può permettere quando una famiglia ha bisogno di aiuto. E nel tempo ho imparato a cogliere il valore di queste resistenze: non ci si può mai incontrare se non si fa un passo verso l’altro. E compiere questo passo permette poi di aprire possibilità al pedagogico. E io posso tornare a casa o dirigermi verso altri servizi sociali, soddisfatta per aver fatto il lavoro che amo e per aver contribuito a costruire un pezzo in più di integrazione tra culture professionali, organizzative e personali differenti.


Vi saluto ora. Mi stanno aspettando in un servizio sociale!

martedì 31 marzo 2015

#storia4: Quella che è diversa, in casa vostra, sono io.

Eccoci alla quarta storia. Vi voglio raccontare delle esperienze che ho fatto come educatrice domiciliare che, per chi non lo sapesse, non è né una tata, né una badante. Nemmeno ‘un badante’ stile Quasi amici, seppur questo sia un film dalla cui idea generale poter trarre riferimenti di pensiero interessanti.








L’immagine è stata tratta dal film Quasi amici, di Olivier Nakache, Eric Toledano, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera













Del lavoro educativo in ambito di Tutela minorile, parlerò nelle prossime storie. Oggi voglio trattenervi ancora sul tema della diversità. Questa volta uscendo dalla comunità alloggio per persone disabili, bussando invece alla porta di due case, due famiglie, in cui ho lavorato.

‘E’ permesso?’

La risposta è quasi stata sempre sì. E io entravo. Ma so bene quanta fatica sia costata loro il farmi entrare non solo in quella che è la loro casa, ma più che altro in quella che è la loro intimità, fortemente provata da situazioni di fragilità che, una volta aperta la porta, non avevano più la possibilità di rifugiarsi.

Il mio primo passo oltre la soglia era sempre accompagnato da gesti di delicatezza e rispetto verso le persone presenti e le attività che stavano conducendo, interrotte dal suono del campanello premuto dal mio indice. Questo nessuno me l’ha insegnato in Università. Deriva forse più da ciò che mi hanno insegnato i miei genitori: il rispetto dell’altro. E io mi sono portata questo insegnamento nel lavoro, immaginandomi ogni volta cosa sarebbe successo se, dall’altra parte di quella porta, ci fossi stata io con la mia famiglia: mi sarebbe piaciuto che l’educatrice, inviata dal servizio sociale, entrasse con delicatezza e che POI facesse il suo lavoro. E così ho sempre fatto.

In entrambe le esperienze di cui vi narro, le famiglie avevano a che fare, tutti i giorni con la disabilità, la malattia psichiatrica, la povertà economica e culturale. Genitori e figli a navigar nell’impetuoso mar di una società che è sempre troppo in tempesta per loro, sempre troppo veloce, troppo cattiva. E per questo era bene chiudere la porta di casa a più mandate, perché almeno, dentro, ci si poteva riparare.

Entrando, chiudevo subito la porta dietro di me. E poi, cercando di rispettare il più possibile i tempi di ognuno dei familiari,  perché quella diversa, in quelle case, ero io, estraevo dalla mia sacca ciò che avevo a disposizione per proteggersi dalla bufera; la porta si riapriva e, insieme, ci si allenava ad affrontare il mondo fuori da lì.
E di allenamento in allenamento, nessun miracolo è avvenuto, ma la fatica affrontata settimanalmente ha permesso di scorgere qualche ancoraggio per trovare sosta, ogni tanto, anche in mare aperto.
Riallacciare relazioni con parenti che, quando hanno tempo, possono dare una mano; insegnare cosa poter chiedere alla scuola dei propri figli e cosa no e in quali momenti; come chiedere aiuto ai servizi sociali capendo che non è vero che tutto è dovuto. Mostrare a negozianti e vicini di casa, che nessuno è un alieno, ma ognuno è particolare a suo modo e basta imparare a comunicare un po’ con tutti e non solo con chi è più facile (se lo facevo io, e mi vedevano farlo, potevano benissimo farlo anche loro); trovare il coraggio per frequentare centri diurni in cui divertirsi e impegnarsi nella ricerca delle proprie abilità, mentre i genitori potevano badare alla casa, andare in posta, fare la spesa, preparare la cena e impostare gli spazi casalinghi in modo che ci fossero quelli dedicati alla convivenza e quelli destinati all’intimità, così che l’ordine materiale aiutasse anche a fare ordine relazionale. Capire quando si è stanchi e non si riesce proprio ad affrontare la fatica di rapportarsi con tutta quella gente diversa che gira per le strade. Perché anche chi è socialmente considerato diverso, deve fare i conti necessariamente con la diversità altrui. A partire da me, la loro educatrice. Alleniamoci quindi a dire a Manuela ‘Oggi non ce la faccio, non ho voglia di stare con te’, invece che arrabbiarsi, strillare, sputare, agitarsi, spintonare e graffiare. Perché di gente come Manuela il mondo è pieno, ma non sono tutti e tutte pagate come lei, per ritornare da noi. E non è bello sentirsi soli ed esclusi.

Lavorare come educatori ed educatrici in contesti familiari in cui la disabilità è di casa, vuol dire infatti potenziare al massimo lo strumento che siamo, semplicemente perché ci siamo. E con la nostra persona portiamo uno spaccato del mondo che ogni giorno, le persone più fragili devono duramente affrontare.

Il mondo è un mare impetuso. Quindi, bando alla ciance: generare pietismo ci dà una spinta solo per poche miglia nautiche. Poi le onde ingrossano e l’imbarcazione affonda. È necessario diventare marinai il più esperti possibile.


Rivedermi come nostromo, mi fa sorridere. E un dolce ricordo va a queste famiglie che hanno imparato a sopportarmi. 

lunedì 23 marzo 2015

#storia3: diversità che convivono

Non mi ricordo quando ho cominciato di preciso. A lavorare come educatrice in due comunità alloggio per persone disabili adulte della cooperativa Il Fontanile, di Milano. Di sicuro ci ho lavorato fino ai primi mesi del 2010, maggio credo. E per due o tre anni in tutto.

Lavoravo nei week end. Le comunità erano organizzate in modo tale che agli operatori fissi, che coprivano i turni settimanali, si alternassero collaboratori nel fine settimana, così da permettere ritmi di lavoro sostenibili per tutti.

Io sono sempre stata un’educatrice definita di frontiera. Non mi è mai importato dove mi mandassero a lavorare e con chi. A me importava fare l’educatrice. Ho colto dunque questa possibilità. E mi è piaciuto moltissimo viverla.

Lavoravo nel fine settimana, ho detto. Il mio compito, quindi, era di affiancare gli ospiti delle comunità nelle attività di svago che sono tipiche dei week end, riposo compreso. Mi ricordo di gite nei parchi, partecipazione alle feste di associazioni o di quartiere, visite dei familiari, sistemazione delle camere, momenti di convivialità e di cura personale degli ospiti. Nonché, ovviamente, come in ogni comunità che si rispetti, pranzi, cene, merende e colazioni.

E’ stata per me un’esperienza molto intensa. Non solo perchè lavoravo altrove dal lunedì al venerdì e in quasi tutti i fine settimana andavo in queste comunità.
Chi non è addetto ai lavori e mi sta leggendo, deve infatti sapere che nel cuore di ogni educatore ed educatrice c’è la voglia di lavorare in una comunità prima o poi. Perché se l’educativo consiste nell’insegnare qualcosa che serve alla vita di chi incontriamo, a partire dalla quotidianità, le comunità sono quei servizi che della quotidianità si occupano in toto.
E anche io ho provato il piacere professionale di farlo. Accanto al piacere umano di condividere giornate con persone impegnate ad avere a che fare in ogni momento con la propria disabilità, con le disabilità dei conviventi ospiti e con le diversità che ogni operatore portava nelle modalità con cui interagiva con  loro e gestiva le faccende organizzative del servizio.
Io ho stimato molto queste persone. Erano molto più capaci di me di sopportare, adattarsi e mostrare i propri bisogni. Vivere, sine die, insieme a tante persone diverse, abituarsi alle particolarità di ognuno, imparare a salutare chi ci lasciava e ad accogliere chi arrivava, convivere con la mancanza dei propri familiari, cercare e proteggere i propri spazi personali, reali e figurati. Il tutto avendo a che fare con i limiti che una condizione di disabilità comporta. L’emozione era forte, ad ogni week end, e ancora ora, raccontandovelo, sento lo stomaco stringersi.

In mezzo allo stupore esistenziale che provavo, ho insegnato a queste persone a rendersi sempre più protagoniste nelle proprie scelte.
Non era facile per loro scegliere come vestirsi, cosa mangiare, come comportarsi a tavola, lavarsi o farsi aiutare nel lavarsi (quando c’era chi da solo o da sola proprio non riusciva). Pensate che sia semplice imparare a farsi mettere le mani addosso, essendo adulti, da una che si conosce poco, mentre siete sotto la doccia? E che vi dice che quel poco che riuscite a fare, dovete continuare a farlo voi, sotto lo sguardo dello stessa semi-sconosciuta di cui sopra?
Ma era importante che io insegnassi loro a lavorare sulla propria autonomia, perché questa è l’unica strada possibile per avere anche solo una minima voce in capitolo in una vita che, altrimenti, sarebbe totalmente gestita da altri.
Ho insegnato a stare in interazione con altri, ma anche a capire quando ritirarsi in privato. Come riuscire a vivere l’intimità di cui tutti abbiamo bisogno, in un luogo sempre pieno di tanta gente. Capire cosa fa bene mangiare e cosa invece no, perché invecchiando non si può più mangiare come quando si è ragazzini. Imparare a convivere con le proprie emozioni e condividerle con chi si ha accanto, per non sentirsi soli. A divertirsi con chi in quel momento ne ha voglia, accettando di lasciare in pace chi ha voglia di riposarsi o è di umore nero e ha il diritto di smaltire pensieri ed emozioni. Scegliere il programma televisivo da guardare insieme prima di andare a dormire, ricordarsi di lavare i denti, rispettare i turni per apparecchiare e sparecchiare la tavola anche quando la voglia manca. Ma anche imparare a dire quando non si sta bene e non si riesce proprio ad assolvere alle faccende domestiche. Viversi la propria adultità insomma, in un mondo in cui le persone disabili tendono ad essere viste come eterni bambini e invece hanno il diritto di veder rispettata la propria età anagrafica e il dovere di non cedere alle tendenze assistenzialiste.






Questa foto, non è della comunità, ma del centro diurno disabili Martin pescatore, di Alessandria. E' comunque una foto che immortala un momento di festa, all'interno della quotidianità che altre persone e altri educatori vivono in questo centro, nella condivisione di tante diversità.
Mi è stata concessa da Monica Massola, che lo coordina. 







E insegnando, ho imparato a riflettere su questi valori quotidiani anche per me: ho ragionato su cosa volesse dire nella mia di vita, potenziare l’autonomia all’interno delle tante relazioni che stavo vivendo. In che cosa avevo bisogno di emanciparmi. In che cosa avevo bisogno di aiuto.
Ho imparato a dosare, meglio che in altre esperienze lavorative, l’intenzionalità pedagogica con la delicatezza delle azioni attraverso cui le esprimevo.
Ho imparato che le diversità possono convivere effettivamente, non solo idealmente, perché se è possibile far convivere tante diversità in queste comunità, allora anche nel mondo fuori da lì è possibile.
E l’ideologia la lasciamo a chi ha tempo da perdere e bocche da riempire con parole vane, dalle gambe corte.

giovedì 19 marzo 2015

#storia2: tra ordine e complessità. Il coordinamento pedagogico in un cag

A chi mi sta seguendo in questo processo di personal branding, voglio fare una promessa: mi sforzerò di essere più leggera nella scrittura. Mi piace scrivere, ma sono cosciente di avere un’impostazione accademica che spesso, per il web, non è l’ideale. E siccome la voglia che ho è di raccontare le mie esperienze e i miei pensieri professionali, so che devo renderli più fruibili, se no…a chi viene voglia di leggerli…?

Abbiate pazienza. Sto imparando!

Se nell’articolo precedente ho voluto condividere con voi i miei pensieri da educatrice nei servizi rivolti alle Politiche giovanili, oggi voglio raccontarvi quello che faccio quando indosso l’abito di coordinatrice pedagogica di un centro di aggregazione giovanile.

Lavorare in un cag come educatori significa mostrare ogni giorno le potenzialità che ha lo scambio tra adulti e giovani. Qual è quel quid in più che un gruppo di ragazzi può raggiungere, grazie alla presenza di due adulti che con loro condividono esperienze, pensieri ed emozioni. E in più, fare tutto questo senza mai dimenticare lo scopo educativo di fondo: formare futuri adulti capaci di essere cittadini attivi e partecipi della comunità in cui vivono o vivranno.

Condividere momenti con i ragazzi durante il loro tempo libero, vuol dire anche presidiare il valore intrinseco che il tempo libero ha. Nella società odierna che richiede prestazioni sempre più alte e continue, è necessario dare valore al tempo libero quale spazio di diritto del riposo, della creatività, della noia anche. E gli educatori in un cag insegnano dunque a sapersi riposare, sapersi annoiare, trovando poi nella creatività quella molla che aiuta a non perdersi, a non appiattirsi, a favore del sognarsi e progettarsi.

Il mio compito è quello di aiutare gli educatori a fare ordine in quello spazio prezioso e necessario tra azioni e pensieri, che permette di preservare e agire l’intenzionalità pedagogica in tutto ciò che propongono ai ragazzi e alle ragazze che frequentano il servizio. Fare ordine nella complessità che la conduzione di un servizio educativo comporta:
quanto e come forzare i ragazzi a guardare oltre ciò che di se stessi e del mondo vedono da soli?
quanto e come accogliere lo sguardo che già hanno e valorizzarlo?
come insegnare a convivere anche con chi non ha le caratteristiche per essere l’amico o l’amica ideale?
cosa farsene delle fatiche di crescita che raccontano?
quali prendere in carico e quali invece accompagnare a chi è più adatto per trattarle?
come essere un punto di riferimento per i genitori e per gli insegnanti?
come essere interlocutori interessanti per altre realtà presenti nel territorio?


Il mio compito è poi anche quello di mantenere i rapporti con l’Amministrazione comunale che crede in questo servizio e lo finanzia, facendo in modo che crisi o non crisi, la comunità possa continuare a godere di questo servizio. 

Riempie di soddisfazione accorgersi che da gestori delegati di un servizio pubblico, si diventa soggetti interessanti per progettare insieme passo dopo passo nuove occasioni di crescita e cura per i ragazzi e le ragazze della comunità territoriale.

Ed è bellissimo accompagnare i colleghi nella loro pratica professionale, aiutandoli ad evolvere come professionisti, a conoscersi meglio e ad approfondire la conoscenza dell’organizzazione per cui si lavora, comprendere quali bisogni formativi hanno e accudirli.





I colleghi che coordino e che hanno voluto metterci la faccia....e sopportano di farsi fotografare dopo una riunione, perchè un po' mi vogliono bene! :)

lunedì 16 marzo 2015

#storia1: le Politiche giovanili e le evoluzioni di senso

Oggi voglio farvi compartecipi di pensieri che, da qualche anno, sto facendo lavorando come educatrice nei servizi educativi rivolti a ragazze e ragazzi nell’ambito del loro tempo libero.

Ho iniziato a lavorare in questi servizi da subito, nel 2004. Prima con Cooperativa Aeris e dal 2010 con Cooperativa Milagro.

Nel corso di questi 11 anni, ho fatto molto e riflettuto altrettanto. Le indicazioni politiche che governano questa tipologia di servizi sono cambiate, a volte in maniera più estemporanea, altre con un’organicità che ha saputo lasciare il segno.

Spesso capita infatti che i Servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono un’offerta al pubblico, qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento con i tempi della forma del prodotto, la possibilità per un servizio di rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.

In questi ultimi anni però sto assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso.

Tutto è cominciato, per lo meno in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.

Dagli anni ’80 sono stati questi i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero, per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio. L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali, quelli per cui, per esempio, ‘io in un centro di aggregazione non ci andrò mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che  più si sta lontano dallo sguardo adulto che cura, più è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare dannose per la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a declinare il tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della loro voglia di in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che sentono più stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di frequentarli.

Al giorno d’oggi, di Educative di strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché soprattutto?

Al di là di risposte a favore o contro la permanenza di questi servizi, ciò che a mio parere è un dovere professionale del pedagogico è porsi la domanda (P. Barone, 2009): siamo certi che i servizi oggi in essere accolgano i bisogni socio-educativi attuali dei cittadini a cui sono offerti?

Riguardo alle Politiche giovanili trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta, gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta.

Mi si potrà dire che tutto ciò è sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un decennio in servizi per i giovani, risponderò che invece non sempre è stato così. I centri di aggregazione spesso si sono isolati, sono diventati ghetti dorati per ragazzi e ragazze che hanno compiuto percorsi educativi molto ricchi e interessanti, ma di cui molto spesso si è faticato a mostrarne alla comunità il valore e la portata. E non basta che educatori e coordinatori siano stati capaci di porre in evidenza i progetti e le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno attraversato quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si sente come bisogno attuale è che la comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo loro servizi, ma che ci sia una presa d’atto di corresponsabilità e che questa corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti in prima persona e non delegata ai professionisti. Competenza di questi ultimi quindi sarà quella di costruire occasioni di scambio, di formazione in itinere e di presa in carico in cui ogni cittadino si attiva, a partire dal ruolo sociale che riveste in quello specifico incontro.

C’è in atto una vera e propria evoluzione di senso. Non esistono più i ragazzi del centro di aggregazione tal dei tali, esistono invece i ragazzi di quel paese, di quella città, in cui tra le varie offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro frequentano. Cosa vuol dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto per i non addetti al lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo è che non basta più che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un target dei propri cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo degli operatori che la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo settore e volontariato co-progettino a partire dall’azione del bando di gara, si co-attivino e a cascata convochino i diversi soggetti territoriali. Questo perché è anacronistico pensare che ai giovani di oggi possano bastare le offerte, pur ben pensate, di un unico servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli, fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati nella strutturazione di ponti semantici  che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia, non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.

In effetti, il problema non è e non può più essere, interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite, in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro; un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni, sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio sociale di funzionare da possibile “connettore”, affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone, 2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo frequentano? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.

Sono gli adulti, professionisti e non, che ancora una volta devono evolvere i propri paradigmi di pensiero. I ragazzi e le ragazze già da anni, ci segnano la strada. E non perché siano più intelligenti, non voglio necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono spontaneamente cogliendo ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di fuori di ogni preconcetto e formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un centro di aggregazione, non può essere geloso delle proprie iniziative. Deve offrire un servizio alla cittadinanza, trasformarsi da centro a polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di connettere reti di interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria specificità di offerta, altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere poli cloni.

Non mi sono dimenticata delle Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale: educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.

A mio parere è questo che al giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro e di presa in carico. Questo è formare una comunità perché evolva dall’offerta di servizi competenti, all’assunzione delle proprie responsabilità educative, diventando una comunità competente.

Ed è questo uno dei miei pezzi di lavoro che, con Cooperativa Milagro, svolgo settimanalmente nel ProgettoGiovani Pessano con Bornago.






Questa foto risale a qualche anno fa. molti di questi ragazzi di Pessano con Bornago ora lavorano, studiano all'università o sono in giro per il mondo solcando strade per costruire il proprio futuro.









Voi cosa ne pensate? Riconoscete questo trend evolutivo? Lo ritrovate anche in servizi destinati ad altri target di utenza?

giovedì 12 marzo 2015

#storia0: perchè da dove si proviene, è importante

Ho capito di voler lavorare nel mondo educativo in quinta Liceo, arrivato il momento di pensare alla facoltà universitaria da scegliere. Ero molto interessata a lettere moderne, che poi ho scartato perché non volevo restringere l’ambito educativo al solo insegnamento scolastico. Ho scartato poi psicologia, perché avevo voglia di stare a contatto con le persone, fianco a fianco. Ed ecco che iscrivermi a Scienze dell’Educazione è diventata la scelta ovvia. E, con il passare del tempo, anche proprio giusta per me.

A dirla tutta, l’università è l’unico grado scolastico che rifarei al volo! Mi hanno appassionato gli argomenti, mi ha appassionato l’ambiente accademico e di scambio con compagne e compagni. Appena potevo ero là, nell’edificio U6 di Milano-Bicocca, anche quando non c’era lezione. Per studiare e respirare quell’aria che, per me, proveniente da un piccolo paesino di Provincia, ha aperto sogni e possibilità.
Chi conosce la zona sa che non è proprio quella che si può dire essere una bella zona. E a maggior ragione non lo era allora, quando il polo universitario era appena stato aperto e tutto intorno regnavano gli scheletri di vecchie industrie man mano abbattute per dar la possibilità ad abitazioni, locali e servizi di generarsi e proliferare. Era il 1999. Però vi assicuro che in mezzo a quel grigiore, tra i corridoi dell’edificio e i suoi chioschi che davano respiro al cemento imperante, io ho trovato la mia strada. E ricordarlo ora, con voi, mi emoziona ancora.

E’ stato qui che ho scoperto lo spazio della pedagogia all’interno del vasto mondo delle scienze umane. Ho incontrato la specificità pedagogica, soprattutto incontrando Riccardo Massa e i suoi allievi, partecipando alle loro lezioni e studiando i loro testi. E le mani mi prudevano. Era tanta la voglia di metterle in pasta! Perché se ‘la pedagogia è la scienza strutturale dell’educazione’, ed una scienza necessariamente teorico-prassica, io sapevo che non potevo solo studiarla, dovevo anche praticarla.

Ho però tenuto duro. Ho dato precedenza agli studi facendo mille lavori nel frattempo per mantenermi e poi, poco prima di discutere la tesi, sono entrata nel mondo dell’educazione professionale.

Da allora sono trascorsi undici anni. Ho lavorato in più organizzazioni del Terzo settore e ho attraversato quasi tutti i servizi educativi ad oggi esistenti. Non solo. Da 8 anni a questa parte ricopro anche più ruoli, passando dai panni dell’educatrice, a quelli di coordinatrice, orientatrice, formatrice e consulente. Tutto all’interno all’interno della stessa settimana. Mica male vero? A me piace moltissimo!

Come capirete il materiale da raccontare è molto. Ho bisogno quindi di operare una forte selezione, per non annoiare voi e per evitare che io mi disperda.

Decido perciò di iniziare un viaggio nella mia storia professionale, accompagnandovi tra tematiche e luoghi professionali che ho incontrato, alla ricerca della composizione del puzzle che è la mia vita professionale.




L’immagine è stata tratta dal film Puzzle, di Paul Haggis, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera








Mi auguro vi venga un po’ di voglia di fare questo viaggio insieme a me e vi do appuntamento a lunedì 16 marzo, per raccontarvi la #storia1.

sabato 10 gennaio 2015

Ragazzi che scompaiono

L'altro ieri mattina una ragazza di 14 anni, residente nel mio piccolo paese di origine è scomparsa. Sembra non essere stata rapita, ma che volontariamente abbia fatto perdere le tracce di sè. Ieri sera è stata ritrovata, nella stazione ferroviaria del paese in cui va a scuola. Se davvero ha voluto sparire, è stata intelligente: non si è allontanata da luoghi a lei consociuti. Ha saputo proteggersi, almeno un po'. E a 14 anni non è facile.

Non so quale si scoprirà essere la verità della faccenda. Quello che mi fa riflettere ora è l'ipotesi che una ragazza decida di sparire, lasci a casa lo smartphone, cancelli tutte le conversazione sui propri profili social e abbia il coraggio di 'perdersi', senza avere la certazza di venire ritrovata.

Ieri mattina mi ha chiamata una madre, a cui faccio consulenza genitoriale allo scopo di rinforzare il suo ruolo materno in rapporto a una figlia adolescente. Ha saputo della ragazza scomparsa e temeva che anche sua figlia potesse decidere di scomparire. Conoscendola, l'ho rassicurata e facendolo ho messo a fuoco un pensiero e lo trasformo ora in una domanda da indagare: è possibile che i figli che decidono di scomparire lo facciano per gridare ai propri genitori 'Sono qui e non mi sento visto da voi. Provo a sparire per capire se vi accorgete che non ci sono più!'?

È una domanda straziante questa. Per i figli, che si sentono soli e invisibili al punto tale da fare un gesto estremo. Per i genitori che vengono gettati in uno sparsamento totale e si riempiono di sensi di colpa, facendo a pugni con la difficoltà di capire in cosa hanno fallito, che cosa hanno sbagliato.

Ai professionisti dell'Educazione tocca lavorare per aiutare ad aprire queste domande, cercare di starci,  scandagliare quelle dimensioni di vita in cui possono annidarsi questi pericoli e generare consapevolezza rispetto alle azioni educative che vengono messe in campo.

Alla società adulta spetta invece combattere la chiusura che fa sprofondare tanti nuclei familiari, bussare alla porta dei vicini di casa, mostrare che esiste una vita al di fuori delle proprie mura domestiche fatta di persone con cui condividere le proprie preoccupazioni e le proprie fatiche.

Sono queste possibili strade per far sì che i ragazzi possano avere la sensazione di essere sorretti da una rete sociale, che evita loro di dover prendere la straziante responsabilità di far perdere le tracce di sè.