giovedì 28 agosto 2014

#pensodunquebloggodue - Circolarità comunicativa e fenomeno educativo

I blogger del gruppo Snodi Pedagogici hanno scritto, e oggi pubblicano, una serie di articoli sui propri blog, inerenti ai Blogging Day precedenti: #‎EducazionEAmore‬#‎EducazionEbellezza#‎PedagogicAlert.
Una sorta di conclusione su quanto è emerso fino ad oggi grazie ai vostri contributi, per rileggere assieme a voi i passaggi fondamentali, provando a dare delle risposte ma anche porre e porsi nuove domande, in vista dell'antologia che verrà pubblicata ad autunno e il cui ricavato andrà in beneficenza alla "Locanda dei Girasoli" di Roma.


Circolarità comunicativa e fenomeno educativo

In un articolo precedente ho trattato del valore educativo della circolarità comunicativa. 
A dire il vero, in quelle righe, ho maggiormente riflettuto rispetto al rapporto tra narrazione ed educazione, lasciando sullo sfondo il lungo concetto che qui ora mi appresto ad approfondire.

Snodi Pedagogici si è imbattuto nell’esperienza dei Blogging Day. Otto, da gennaio ad agosto di quest’anno. Sei, hanno visto il contributo di scrittori ospitati sui blog degli appartenenti al gruppo. Due, tra cui questi del #pensodunquebloggodue, sono invece stati eventi di rilettura degli articoli pubblicati allo scopo di tracciare linee di pensiero che raccontassero di questa esperienza e che mettessero in rilievo il valore pedagogico della scrittura di esperienze educative.

Confrontandoci tra noi qualche mese fa, rigorosamente in rete, ci siamo imbattuti nel concetto di Circolarità comunicativa, che per noi, fin da subito, ha voluto significare non solo la possibilità di far circolare contenuti e letture sul web, ma soprattutto una struttura importante del fenomeno educativo.
Mi spiego meglio. Se si cerca su Google, per circolarità comunicativa si intende il processo che la comunicazione attraversa passando dall’emittente del messaggio al ricevente, tornando poi, a mo’ di feedback, all’emittente. E va bene. Questo è il dato tecnico della faccenda ed è ben conosciuto.

Ma la Circolarità comunicativa può essere un fattore, una struttura dell’Educazione?

Virginia Fiume, scrivendo per il Blogging Day #pedagogicalert, ha trattato dei rischi educativi mettendo a fuoco i pericoli e le derive dell’istruzione e dei sistemi di potere. Una sorta di ripresa, tutta contemporanea, del pensiero classico di M. Foucault che, nei sui testi, tra cui Surveiller et punir  (1975), dice:

Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nelle fabbriche: la disciplina.
E così, Virginia dice, attualizzando:

“Aaron Swartz per me rappresenta il promemoria quotidiano dell'esistenza di un lato oscuro dell'educazione. Quel punto in cui l'educazione smette di assolvere la sua funzione etimologica, il “portare fuori” di ex+ducere, e si trasforma nell'imbuto, in qualcosa che “mette dentro”. L'educatore come qualcuno che infila le idee nella testa degli studenti, invece che favorire lo sviluppo dello spirito critico. Il sistema educativo che inserisce le fonti a cui si dovrebbe attingere per aumentare e condividere la conoscenza in depositi costosissimi, invece che renderle accessibili.”

L’autrice dell’articolo poi, giornalista  che gira il Mondo ed ora abita e lavora a Londra, citando l’Associazione AssoEtica con cui collabora, racconta di una delle possibilità che ad oggi si hanno per riuscire a modificare il sistema imperante di controllo (economico), standoci dentro, ma cambiandone i paradigmi di valutazione, riprendendo uno stralcio riportato sul sito dell'Associazione:

“Ciò significa che per fare dell’etica un vantaggio competitivo, si deve andare oltre la certificazione, facendo leva sulla propria diversità e sui propri caratteri distintivi -già esistenti o costruibili nel tempo- tramite adeguate politiche. AssoEtica, quando chiamata a fornire un modello di atteggiamento etico, risponde con l’indicazione che il modello deve emergere dalla storia, dalla cultura, dalle strategie dell’azienda stessa. AssoEtica si impegna quindi a lavorare per far emergere quel ‘modello etico’ aziendale nella sua irrinunciabile unicità ma condiviso da tutti i portatori di interessi -gli stakeholders- coinvolti nelle attività […]. Si impegna a fornire gli strumenti e i metodi per innescare il circolo virtuoso e garantire il miglioramento continuo nella relazione cliente/fornitore. Un impegno che non può essere di certificazione – poiché il ‘certificare’ rimanda all’idea di ‘vagliare’, ‘passare al setaccio’ e cernere, distinguere ciò che è ‘giusto’ e cosa è ‘sbagliato’ – ma piuttosto di asseverazione, di testimonianza solenne. Il testimone, infatti, è colui che si pone nel ruolo di terzo, ‘arbitro’ che cerca e promuove l’incontro tra punti di vista diversi perché diversi sono gli interessi in campo  […]. Tutti portatori di crescenti aspettative, di legittimi interessi e anche di legittimi diritti. ”

Tutto ciò c’entra con l’Educazione, perché al di là di quello che si comunica verbalmente, ciò che forgia i sistemi sono le strutture materiali che vengono adottate e che fanno circolare messaggi profondi sulle modalità di vivere, a cui poi noi, ignari, ci adattiamo inconsapevolmente (R. Massa, Le tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, 1986). L’Educazione vista quindi soprattutto come un dispositivo, che dispone appunto i corpi negli spazi, secondo tempi precisi, attraverso la 'manipolazione' di oggetti scelti a dovere.

Andrea Fontana, imprenditore, docente e storytelling expert, rintraccia nelle storie e nelle narrazioni che il Marketing utilizza, un dispositivo ordinatore:

“Una storia è un dispositivo ordinatore, è uno strumento che sistematizza gli eventi umani dando loro un senso e una direzione”, perché “Le storie sono potenti. Invadono le nostre vite.
Ci rimangono per anni nell’animo e poi esplodono nelle nostre realtà”.

Ed è così che ad oggi, pur non venendo meno i dispositivi classici, la realtà viene costruita e trasmessa a chi la vive, secondo il sapiente utilizzo dei metodi informativo/comunicativi. L’Educazione ancora una volta sta rischiando di lasciarsi sfuggire le sue proprie potenzialità, lasciandone il libero utilizzo al marketing aziendale, senza nemmeno chiederne un ritorno. È questo un capitolo estremamente interessante da approfondire. Non è qui che intendo farlo. E' certo però che le comunicazioni messe in circolazione plasmano i pensieri. Ognuno di noi, individualmente e nelle Organizzazioni che abita, ha una porzione di potere per decidere quali messaggi trasmettere. 

Sempre Virginia Fiume, riferendosi alla ricerca  LaTorre di Pisa dice:

“[…] per asseverare bisogna saper essere. E l'educatore – per tornare all'idea di educazione di Aaron Swartz – è colui che aiuta a sviluppare gli strumenti per saper essere. […] Certo, c'è un rischio molto alto in questo approccio, il rischio di passare da un eccesso di guida e controllo al non avere una guida. Ed è in questa zona di rischio che si gioca la credibilità dell'educatore e del formatore. […]Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E imparare a scegliere con chi farlo”. 

Inizia a farsi più chiaro il rapporto tra circolarità comunicativa e fenomeno educativo. Comunicazione ed Educazione si sostanziano vicendevolmente in una struttura sociale. Come I. Salomone nelle sue Lezioni di Pedagogia interazionale (a cura di C. Gambalonga, R. Pacchioni, Magma edizioni, 2005) sostiene:

“[…] in un universo teorico che ha come paradigma centrale quello della comunicazione il problema degli strumenti si deve trasformare nel problema dei linguaggi dentro la comunicazione educativa; vanno quindi studiati quali tra i linguaggi siano quelli che fanno parlare la comunicazione in senso educativo, la particolare lettura che noi diamo di questo universo teoretico è la teoria dei media interazionali. Il passaggio fondamentale dai paradigmi pedagogici orientati ai contenuti, agli strumenti ed ai processi di apprendimento, alle teorie e tecnologie della comunicazione rappresenta, dunque, il vero mutamento paradigmatico, ossia il trascinamento dei problemi dell’educazione in un universo paradigmatico differente. La rivoluzione paradigmatica non si colloca tanto nell’interpretazione che ne diamo noi, ma nel passaggio dall’orientamento di tipo oggettuale, che spezza la relazione educativa in oggetti esterni manipolabili, in un orientamento di tipo comunicazionale. Esso considera come fatto rilevante la relazione educativa intesa come interazione comunicativa tra attori entro una scena sociale e può ricomprendere i paradigmi precedenti sulla base di teorie prodotte dagli stessi, collocando i processi di tematizzazione, i ruoli ed i linguaggi dentro la comunicazione educativa stessa”
Dove per “comunicazione” si vuole andare ben oltre la sola comunicazione verbale, ovviamente, perché sappiamo che anche e soprattutto i corpi parlano e, abbiamo detto, anche i sistemi organizzativi, nonché le immagini e tutto ciò attraverso cui, implicitamente, vogliamo trasmettere contenuti e conoscenze.

Nel Blogging Day #educazionEbellezza, Rita Totti, avvocato e mediatrice familiare, infatti narra:

“[…] una dolcissima docente delle scuole medie inferiori  dedicava interi pomeriggi della sua vita a preparare per noi percorsi in immagini che ci mostrassero la bellezza, in senso classico. Quelle lunghe mattinate, in sala proiezioni, a scrutare nel buio dell’aula statue greche, bassorilievi, affreschi e ad ascoltare la ‘prof.’ descriverli, con l’amore e la perizia di una vita dedicata allo studio dell’arte”.

Una docente che io immagino estremamente appassionata all’arte, tanto da in-segnare la stessa passione ai suoi alunni, senza parlarne, perché capace di dare invece voce alle opere d’arte mostrate e tanto amate.

Rimanendo in tema di passione e amore, nel Blogging Day #educazionEamore, Cristina Crippa, formatrice ed orientatrice, pone una distinzione tanto semplice, quanto chiara e diretta, della differenza tra relazione affettiva e relazione educativa. Dice infatti:

“Ho imparato che una relazione d’amore e una relazione educativa sono profondamente diverse. Ho sperimentato che educare qualcuno non è amarlo, ma amare qualcuno è anche educare e farsi educare. C’è una dinamica comune in queste due relazioni umane che non smette di catturare il mio interesse: amare qualcuno, educare qualcuno significa accompagnarlo fuori da sé, senza lasciarlo solo. Fuori da sé, ma dove? Credo in luoghi dove vedere nuovi mondi possibili e rappresentazioni di sé inedite ma accessibili, luoghi in cui realizzare forme di benessere crescente. I luoghi del cambiamento, della trasformazione. In una relazione educativa una persona impara grazie all'altro a prendersi cura di sé e della propria esistenza, a prendersi in carico il proprio stare nel mondo. In una relazione amorosa tutto ciò è reciproco: in fondo amare ed essere amati è potenziare e sviluppare la capacità di amare se stessi. È possibile educare qualcuno all'amore? Credo che un compito certamente educativo sia occuparsi di come far crescere nelle persone la capacità di scegliere, di riconoscere l’altro tra gli innumerevoli incontri che abitano una vita, riconoscerlo non solo come qualcuno da amare e da cui farsi amare, ma piuttosto come qualcuno in cui ricercare forme migliori di sé e a cui aprire lo stesso spazio di ricerca, in noi e attraverso noi.”

Questo accade andando ben oltre la semplice e più immediata comunicazione verbale, imparando a stare in un rapporto interpersonale fatto soprattutto di azioni concrete, che 'parlano'. La stessa autrice però ci regala, al termine del suo articolo, due dialoghi, di cui qui ne riporto uno soltanto, Piccolo dialogo da un amore educato:

“Cosa vuol dire che mi ami? “
“Mi fai sentire come mi vedi tu. Quando mi guardi io sono un essere meraviglioso, e adoro esserlo. Quando non ci sei e non mi guardi, io costruisco quell’immagine di me, vivo cercando di realizzarla. Quando non tornerai più a guardarmi, io conserverò quell’immagine dentro il mio mondo, e continuerò a farla vivere”.
“Ma io non faccio niente di speciale per fare tutto questo…”
“Lo so, tu mi ami e basta. Non è speciale: è solo così.”
“Come fai a saperlo?”
“Vedo questa immagine, in tutta la sua complessità e nei minimi dettagli; i colori, le sfumature, le imperfezioni: mi piace, e finché continuerai a dipingerla, so che mi amerai.”
“Ma io ti amo per quello che sei!”
“Non credo, mi ami per ciò che vedi che potrei essere e diventare: e mi fai credere che posso riuscirci, e io ci riesco.”
“Ci riesci…”
“Sì, il tuo amore mi insegna ogni giorno qualcosa su di me.”
“Cosa hai imparato su di te attraverso il mio amore?”
“Ad avere rispetto e cura per il mio corpo, ad ascoltare i pensieri e i desideri della mia pelle, a sorridere una volta al giorno davanti allo specchio: ho imparato che il mio corpo ha bisogno di attenzione e in cambio può restituirmi benessere e piacere.
A non rincorrere il tempo, a non consumarlo, a viverlo con intensità: ho imparato a non lottare con il tempo, a goderne.
A far fatica, a lavorare duramente per realizzare i miei desideri: ho imparato che ho la forza per ottenere ciò che mi fa stare bene, che sono una persona tenace, che posso farcela.
A sentirmi una persona libera: ho imparato che la libertà è poter scegliere ogni giorno cosa vuoi essere, come vuoi vivere, cosa ti fa stare bene.”
“Sì, vabbè… che esagerazione! Mi fai sentire una specie di Maestro!!! Io ti amo solo perché mi ami: perché quando ti penso sto bene, quando ci sei ancora di più, perché mi piace far cose con te (a parte qualche volta, quando sei insopportabile… allora si che mi insegni anche tu qualcosa di me: quanto so essere paziente…). Io pensavo di averti insegnato altre cose: che stai bene con i pantaloni neri, che i capelli sciolti e gli occhiali ti donano, che ti piace il gelato alla fragola, che hai bisogno di dormire 10 ore ogni notte, che se tieni in ordine le tue cose le trovi più facilmente, che se metti l’orologio avanti non arrivi sempre in ritardo, che se conti fino a dieci prima di dire ciò che pensi a volte è meglio… cose del genere, insomma.”
“Adesso sì che mi sembri la mia Maestra delle elementari, che credeva di avermi insegnato a leggere libri, e non si rendeva conto che mi stava aprendo le porte di un mondo intero: la letteratura!!! Certo, poi ho deciso io di entrare in quel mondo e di esplorarlo, ma non l’avrei potuto fare se lei non me lo avesse mostrato, se non mi avesse fatto credere che ero in grado di andarci e che ci avrei trovato cose meravigliose, se non mi avesse accompagnato un po’…
Ma tu mi amerai per sempre?”
“Francamente non saprei… ciò che diventiamo dentro questo amore però forse sì, rimarrà per sempre. Ci rimarrà questo: sapere come si fa, come si fa un amore.
Ma dobbiamo proprio parlare di questo, oggi…?”

In questo scambio comunicativo verbale, si può rintracciare l’importanza di imparare a governare le parole che si esprimono, quando è importante che all’altro arrivino contenuti scelti e intenzionali.

Io non so se Cristina abbia effettivamente sostenuto questo dialogo con la persona che ama. So però, e per certo, che scriverlo le ha permesso di consolidare i suoi pensieri rispetto a quello che per lei è importante che sia un rapporto d’amore. È proprio questo che la narrazione scritta permette e insegna ed è per questo che in Educazione è importante scrivere e trascrivere le narrazioni “parlate” che colorano le esperienze educative. È quel terzo livello di rielaborazione con cui terminavo l’articolo “Circolaritàcomunicativa. Là dove può stare l’educazione”.

Non sempre si ha tempo, lo so bene, per ritrascrivere le interazioni comunicative avvenute nell’arco di una giornata lavorativa, per chi fa l’Educatore di professione. Non ritengo nemmeno sia importante trascriverle tutte. È l’esperienza dello scrivere e del trascrivere che insegna e che ci permette di ritornare nelle interazioni live, face to face, con maggior consapevolezza di governo della comunicazione. Anche scrivere di esperienze educative, senza riportarne i dialoghi verbali, ha il suo perché autoformativo. Non insegna a gestire meglio lo scambio in diretta con gli educandi, ma insegna a riflettere sulla tipologia e sul valore delle esperienze che, a volte anche spontaneamente e rubando dalla vita che scorre le occasioni che capitano, proponiamo a chi è con noi per imparare qualcosa di nuovo su di sé, sul Mondo e sul suo-proprio-stare-nel-Mondo.

Quando queste esperienze di scrittura avvengono pubblicamente, dobbiamo inoltre sforzarci di essere il più chiari possibili, perché arriveranno ad altri, che se ne faranno ciò che vorranno e potranno, e la chiarezza diventa quindi un elemento di responsabilità dello scrivente.

Se infine, si scrive pubblicamente nel web, dobbiamo anche fare i conti con un pubblico potenzialmente più vasto e con una lettura dello scritto altrettanto potenzialmente immediata. Questo fa sì che, scrivere nel e per il web, porti con sé anche la necessità di imparare a concentrarsi maggiormente sui contenuti che trasmettiamo, che condividiamo, e sulla forma che diamo loro. E questo permette di raggiungere un differenziale di competenza ancora maggiore rispetto alla circolarità comunicativa e alla capacità di pensiero che richiede.


Circolarità comunicativa e fenomeno educativo, quindi, si sostanziano nella medesima struttura sociale. Le comunicazioni veicolano messaggi che formano pensieri e comportamenti. Compito pedagogico è analizzare queste strutture per rendere intenzionale il loro utilizzo non solo ai fini di marketing (in cui il mondo del socioeducativo dovrebbe molto migliorarsi), ma anche e soprattutto per esplorare ed evidenziarne la loro portata educativo/formativa.

La circolarità comunicativa, quindi, come mezzo fondamentale e paradigmatico del fenomeno educativo, all’interno del setting pedagogico (I. Salomone, 1997). È cioè attraverso l’interazione comunicativa tra educatore (che insegna) ed educando (che impara), che si costruisce una relazione orientata all’evoluzione personale: l’educando si forma attraverso le esperienze attraversate con l’educatore, che insegna. L’educatore, si forma, attraverso la gestione pedagogica costante del setting.
Ma anche il lettore si forma attraverso pensieri scritti ‘pensati’ a dovere, e con intenzionalità pedagogica nel nostro caso. Lo scrittore (se anche con finalità educativo/formative) si forma attraverso l’esperienza dello scrivere testi (magari anche pedagogicamente orientati).  


È questa una circolarità comunicativa che, a costo di diventare ridondante, definirei sostanzialmente pedagogica. Snodi pedagogici ha provato a trattarla.


Gli altri blog che partecipano al Blogging Day #pensodunquebloggodue, sono:
La Bottega della Pedagogista, di Vania Rigoni
Ponti e Derive, di Monica Cristina Massola
E di Educazione, di Anna Gatti, con un guest post di Alessia Zucchelli, collaboratrice del blog.
Bivio Pedagogico, di Christian Sarno
Trafantasiapensieroeazione, di Monica D'Alessandro Pozzi
Labirinti Pedagogici, di Alessandro Curti
In Dialogo, di Elisa Benzi
Il Piccolo Doge, di Sylvia Baldessari

giovedì 21 agosto 2014

Pedagogia e organizzazioni aziendali

Viviamo immersi nei sistemi organizzativi. Inutile che vi elenchi scuole, ospedali, imprese lavorative, sistemi di compra e vendita, carceri, partiti, Chiese, servizi.  E poi quelle informali: famiglia, gruppi di amici, di volontariato, Oratori, movimenti partitici, luoghi dello sport, della cultura, del benessere e del tempo libero. Insomma, grandi categorie dentro le quali ognuno di noi, quotidianamente, è immerso.

Da tempo, soprattutto con due colleghe Monica Massola e Anna Gatti, stiamo riflettendo intorno a ciò che il pedagogico può e deve dire alle Organizzazioni. La pedagogia, infatti, veicola saperi che ancora ad oggi rimangono nel sommerso. Un sommerso che non è mentale, inconscio, ma estremamente materiale, corporeo e organizzato
Quando qualcuno mi chiede cosa io faccia di lavoro, sentendomi pronunciare la parola “pedagogista”, la risposta più frequente che fa da eco alle mie spiegazioni si riferisce al fatto che io lavori con i bambini e magari anche con i genitori. Vero, verissimo. Ma non solo. Chi si occupa di pedagogia, infatti, si interfaccia con persone di qualunque età (bambini compresi) e in qualunque ruolo sociale (genitori compresi). Ciò che però il pedagogico guarda e pone sotto la lente di ingrandimento, non sono le persone, ma i processi educativi nei quali queste sono immerse, riferendosi ai contesti di vita di volta in volta da loro frequentati (famiglie, servizi educativi scolastici ed extra-scolastici, luoghi di socializzazione e di compito generici).

Ciò che ancora deve prendere piede in campo pedagogico è la possibilità di sondare, conoscere, analizzare, potremmo dire anche scandagliare, i contesti aziendali. Anch’essi sono luoghi di compito e di socializzazione. Anch’essi sono luoghi organizzativi in cui diversi ruoli sociali si interfacciano con compiti precisi, costruendo esperienze in cui, le persone che li attraversano, imparano qualcosa su di sé  e sull’Altro da sé, in rapporto con il lavoro, la professione, gli obiettivi da raggiungere, i prodotti da creare, manutenere, offrire.

Non c’è da stupirsi dunque, se la pedagogia ha qualcosa da dire anche in questo campo. C’è forse anzi da stupirsi del contrario. Come è possibile che, ancora ad oggi, il pedagogico non si sia legittimato lo sbarco in questi territori?

Mi potrete dire che mi sbaglio, che anche nelle aziende si parla di Formazione. Esiste poi tutto il capitolo di scelta e selezione del personale e gestione delle risorse umane, che io, più propriamente, definirei di orientamento e ri-orientamento organizzativo e professionale. Vero. Ma non è detto che tutto ciò avvenga in un’ottica pedagogica. Anzi, per la mia esperienza, ne sono sicura.

Questo perché, nonostante siano esistiti e probabilmente esistano tuttora, corsi di laurea in Scienze dell’educazione, ad indirizzo Formatori dei sistemi aziendali, la qualità pedagogica di queste professionalità aziendali non ha mai trovato legittimazione. Sistemi di potere, di conoscenza e professionali, avversi? Può essere. La causa principale che io intravedo però, mi dispiace per me e per tutti i miei colleghi, si rifà alla poca temerarietà teorica di chi lavora nel pedagogico. Aspetto che se affiancato alle derive morali che da sempre l’Educazione porta con sé (“facciamo del bene”, “aiutiamo gli altri”) ha allontanato di netto il sapere pedagogico da ogni ambito pur lontanamente aziendale perché basato e motivato dal profitto.

Per me questo è un grosso errore. A cui fa compagnia una scarsa conoscenza epistemologica della scienza pedagogica per cui mi pare sia ancora necessario ribadire con forza che per aiutare gli altri, non serve una scienza di appoggio. Per aiutare gli altri, per far del bene, serve aver tempo a disposizione e buon cuore, guarda caso caratteristiche afferenti all’ambito del volontariato e non di qualche professione. Dopodiché, molte professioni e mestieri hanno come effetto collaterale il fare del bene. Anche un elettricista che sistema guasti nelle abitazioni, o negli ospedali, fa del bene collateralmente, aiuta. Ma nessuno dice che il suo lavoro consiste nell’aiutare gli altri.

Il sapere pedagogico si sostanzia nel governo di processi educativi, attraverso la gestione di setting in cui c’è chi ha la responsabilità di ruolo di insegnare e chi si ritrova nel ruolo di colui o colei che impara. Anche nelle aziende c’è chi insegna e chi impara. Nei corsi di formazione, ma non solo. Esistono ruoli predisposti, per definizione organizzativa e per esperienza lavorativa maggiore, a mostrare le pratiche del mestiere e permettere ai sottoposti, o a chi svolge mansioni differenti, di imparare qualcosa di nuovo, arricchendo la propria professionalità. Arricchimento che, tra l’altro, non è solo di chi impara, ma anche di chi insegna. E questo accade durante la pratica lavorativa quotidiana, senza che il tempo produttivo si fermi in qualche aula formativa.


Non c’è dunque una ragione vera ed epistemologica per cui il pedagogico non possa entrare in ambito aziendale. E, come ci ha insegnato a dire Mel Brooks: si può fare!

giovedì 14 agosto 2014

Circolarità comunicativa. Là dove può stare l'Educazione.

“Le storie fanno parte della vita di ogni giorno: siamo sottoposti quotidianamente a migliaia di stimoli narrativi da parte delle agenzie narrative (televisione, videogiochi, cronaca, ecc...). Le storie, se usate consapevolmente, possono diventare degli straordinari strumenti per mettere ordine e dare un senso alle esperienze, per immaginare il futuro e gestire le scelte, per costruire la propria identità e quella dei gruppi di cui facciamo parte. Le storie sono uno strumento per lo sviluppo delle persone, per l'assunzione di potere e controllo (empowerment) sulla propria vita e sulle proprie scelte.” F. Batini, S. Giusti, Le storie siamo noi

Mi piace iniziare con questa considerazione. Noi siamo fatti delle storie che viviamo, per come le raccontiamo o ci vengono raccontate. A quanti di voi è capitato, a me un milione di volte, di raccontare una propria esperienza e poi portarsi con sé, nei ricordi, più il racconto che ne abbiamo fatto che non i fatti per come sono realmente accaduti? Chiaro, come in tutto, anche in questo ci può essere una deriva patologica, che però non è interessante ora e non interessa a me. Storie d’amore terminano e spesso i due protagonisti hanno memorie differenti di ciò che hanno vissuto e paradossalmente condiviso. Lo stesso accade quando si racconta di un corso di formazione, di un accadimento lavorativo. In generale ce ne accorgiamo ogni volta che raccontiamo la nostra versione dei fatti a terzi, in presenza di persone che sono state testimoni della “nostra” esperienza. Pongo le virgolette al pronome possessivo perché non è un caso che le esperienze siano connotate da caratteri neutrali. Ciò che le tinge di sfumature particolari, è il modo in cui ognuno di noi le vive e le colora.

Quando raccontiamo, compiamo forti selezioni degli accadimenti reali, anche senza volerlo e nemmeno senza dover avere particolari abilità comunicative. Se gli esseri umani sono l’unica specie ad oggi vivente, e conosciuta, che necessita di rappresentarsi ciò che accade nel Mondo, a maggior ragione questo bisogno diventa stringente quando si vive qualcosa in prima persona. “Non puoi sapere come sia andata veramente! Sono io che l’ho vissuta! Io so come è andata!”. È questa una sacrosanta verità, che però rimane incompleta se lasciata a se stessa. La nostra vita è il risultato dell’incontro tra le storie che “ci” raccontiamo con quelle che, di noi e del Mondo, ci raccontano gli altri. Un esempio su tutti, banale forse, ma preciso: quanti ragazzi e ragazze crescono convinti di non essere bravi a disegnare perché “Me l’han sempre detto di non essere buono/a…”. Poi capita, e io ne ho le prove, che gli stessi ragazzi e ragazze cimentandosi, per chissà quali convergenze astrali, nella stessa attività da più grandi, scoprano di avere capacità inaspettate. Quello che gli altri, soprattutto se sono persone affettivamente significative, ci raccontano di noi, ci fanno diventare quel che siamo.

La narrazione delle storie ha molto a che fare quindi con i processi educativi. Tutti noi tendenzialmente viviamo un giorno dopo l’altro e, presi dai mille impegni, difficilmente troviamo il tempo per mettere a fuoco la nostra vita. Il risultato è che, se non riusciamo ad allenare la nostra consapevolezza, abbiamo la forte sensazione che il Mondo vada avanti anche senza di noi, che le cose capitino perché così deve essere, che ci sono cose impossibili da governare. E per certi versi è vero. Per fortuna non possiamo controllare tutto. Se così fosse avremmo una triste vita senza sorprese. Ma allenare la consapevolezza vuol dire trovare quel giusto mezzo tra ciò-che-posso e ciò-che-capita
L’Educazione è l’allenatore in questo gioco. Insegna a mettere a fuoco ciò che abbiamo imparato dalle esperienze che abbiamo vissuto. Ma non solo. Basandosi necessariamente sull’interazione tra due o più individui, permette di raccontarle e raccontarcele, trasforma le esperienze in storie da leggere e rileggere, per far sì che la vita di ognuno possa diventare un libro compiuto, per come ai protagonisti piace. E, se piace (questo è un must dei percorsi di Orientamento), vuol dire che ci appartiene, che è una storia capace di far vibrare le nostre corde e ci permette di comporre nuove parti della colonna sonora dei nostri giorni.

So che l’ambiguità è dietro la porta in questo discorso. Un errore enorme, da parte degli educatori, sarebbe quello di contribuire a inventare storie su di sé, allontanando le persone dal dato di realtà. Questa è una deriva pericolosa che è fondamentale aver sempre ben presente. Lo spettacolo però inizia quando, a partire dai dati di realtà, una persona riesce a costruirsi una storia di sé che le appartenga, imparando a non trascurare le pagine oscure della propria esistenza, a godere di quelle colorate, per poi continuare a scrivere di sé,con tutti gli incontri e le esperienze che compie vivendo.

E c’è poi un importante distinguo da sottolineare. Raccontare storie è differente dal raccontarsele, perché questa seconda declinazione può indicare sia la necessità di raccontarsi storie per rassicurarsi, ma anche il bisogno di allontanare la “verità” dei fatti, perché ci fa male, non riusciamo a sostenerla. Raccontare le nostre storie a qualcuno, invece, ci pone in un percorso di autoconsapevolezza crescente. Ed è qui che trova spazio l’Educazione. Chi ci ascolta può infatti aiutarci a ri-guardare l’esperienza che narriamo, cogliendo, attraverso un’intenzionalità pedagogica, i ruoli che abbiamo rivestito in quella storia, dandoci la possibilità di scegliere nuovamente quei ruoli, in date situazioni o provare a giocarne altri. 
Sfogliare le esperienze vissute, con chi di professione ha il compito di individuare gli scarti di apprendimento possibili, fa sì che anche a posteriori una persona possa mettere a fuoco capacità, competenze, interessi, strategie di azione e di interazione. Un bagaglio di autoconsapevolezze con cui è possibile continuare a vivere con maggior sicurezza e intenzionalità. Lo stesso avviene mentre viviamo un’esperienza nel presente e un educatore ci accompagna ad attraversarla mostrandoci nella contemporaneità dei fatti quello che stiamo imparando.

Esiste poi un secondo livello. Quello che ci permette una narrazione scritta. Porci con carta e penna, o sulla tastiera, per trascrivere una nostra esperienza è un’azione che dischiude svariate possibilità.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Scrivere per altri è un’esperienza che in-segna. Nel momento in cui buttiamo giù pensieri sapendo che qualcun'altro li leggerà, facciamo lo sforzo di rendere comprensibile, leggibile appunto, quell’esperienza. In questo processo, automaticamente, la stessa esperienza si rende più chiara anche per noi. Ci soffermiamo sui particolari, perché siano chiari per chi li leggerà. Ne scopriamo di nuovi. La stessa esperienza si arricchisce, si svelano pieghe di cui prima non conoscevamo l’esistenza. S-piegare a qualcuno indica proprio l’atto di scandagliare le pieghe e dare uniformità alla tela già tessuta.

Esiste anche un terzo livello di rielaborazione. Cosa imparo a narrare di me e delle mie esperienze? E cosa vuol dire imparare a narrare un’esperienza educativa o che parli di Educazione? e scrivere su web implica variazioni?


Il 28 agosto, con il Blogging day #pensodunquebloggodue, Snodi Pedagogici  tenterà di raccontarlo.