Oggi voglio farvi compartecipi di
pensieri che, da qualche anno, sto facendo lavorando come educatrice nei
servizi educativi rivolti a ragazze e ragazzi nell’ambito del loro tempo
libero.
Nel corso di questi 11 anni, ho
fatto molto e riflettuto altrettanto. Le indicazioni politiche che governano
questa tipologia di servizi sono cambiate, a volte in maniera più estemporanea,
altre con un’organicità che ha saputo lasciare il segno.
Spesso capita infatti che i
Servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono un’offerta al pubblico,
qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento
con i tempi della forma del prodotto, la possibilità per un servizio di
rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente
utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.
In questi ultimi anni però sto
assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si
sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso.
Tutto è cominciato, per lo meno
in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in
cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore
di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di
aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.
Dagli anni ’80 sono stati questi
i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione
secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di
delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati
infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero,
per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di
disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro
lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al
di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio.
L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi
informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali,
quelli per cui, per esempio, ‘io in un centro di aggregazione non ci andrò
mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla
loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla
prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che più si sta lontano dallo sguardo adulto che
cura, più è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare
dannose per la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a
declinare il tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della
loro voglia di in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che
sentono più stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di
frequentarli.
Al giorno d’oggi, di Educative di
strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di
aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché
soprattutto?
Al di là di risposte a favore o
contro la permanenza di questi servizi, ciò che a mio parere è un dovere
professionale del pedagogico è porsi la domanda (P. Barone, 2009): siamo certi
che i servizi oggi in essere accolgano i bisogni socio-educativi attuali dei
cittadini a cui sono offerti?
Riguardo alle Politiche giovanili
trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che
hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che
sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono
offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta,
gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i
centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta.
Mi si potrà dire che tutto ciò è
sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un decennio in servizi per i giovani,
risponderò che invece non sempre è stato così. I centri di aggregazione spesso
si sono isolati, sono diventati ghetti dorati per ragazzi e ragazze che hanno
compiuto percorsi educativi molto ricchi e interessanti, ma di cui molto spesso
si è faticato a mostrarne alla comunità il valore e la portata. E non basta che
educatori e coordinatori siano stati capaci di porre in evidenza i progetti e
le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno
attraversato quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si
sente come bisogno attuale è che la
comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo loro servizi, ma che
ci sia una presa d’atto di
corresponsabilità e che questa corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti
in prima persona e non delegata ai professionisti. Competenza di questi
ultimi quindi sarà quella di costruire occasioni di scambio, di formazione in
itinere e di presa in carico in cui ogni cittadino si attiva, a partire dal
ruolo sociale che riveste in quello specifico incontro.
C’è in atto una vera e propria evoluzione di senso. Non esistono
più i ragazzi del centro di aggregazione tal
dei tali, esistono invece i ragazzi di quel
paese, di quella città, in cui
tra le varie offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro
frequentano. Cosa vuol dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto
per i non addetti al lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo
è che non basta più che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un
target dei propri cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo
degli operatori che la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo
settore e volontariato co-progettino a partire dall’azione del bando di gara,
si co-attivino e a cascata convochino i diversi soggetti territoriali. Questo
perché è anacronistico pensare che ai giovani di oggi possano bastare le
offerte, pur ben pensate, di un unico servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione
dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini
legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli,
fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati
nella strutturazione di ponti semantici
che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia,
non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita
reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di
aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani
nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un
parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.
In effetti, il problema non è e non può più essere,
interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite,
in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro;
un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi
educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale
aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni,
sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio
sociale di funzionare da possibile “connettore”,
affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone,
2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata
al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo
frequentano? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva
giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si
occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti
abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli
interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il
luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.
Sono gli adulti, professionisti e non, che ancora una volta devono
evolvere i propri paradigmi di pensiero. I ragazzi e le ragazze già da anni, ci
segnano la strada. E non perché siano più intelligenti, non voglio
necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono spontaneamente cogliendo
ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di fuori di ogni preconcetto e
formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un centro di aggregazione, non
può essere geloso delle proprie iniziative. Deve offrire un servizio alla
cittadinanza, trasformarsi da centro a
polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di connettere reti di
interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria specificità di offerta,
altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere poli cloni.
Non mi sono dimenticata delle
Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale:
educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da
gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico
e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul
territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi
tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di
accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di
confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.
A mio parere è questo che al
giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di
avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di
promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro
e di presa in carico. Questo è formare
una comunità perché evolva dall’offerta di servizi competenti, all’assunzione
delle proprie responsabilità educative, diventando una comunità competente.
Questa foto risale a qualche anno fa. molti di questi ragazzi di Pessano con Bornago ora lavorano, studiano all'università o sono in giro per il mondo solcando strade per costruire il proprio futuro.
Voi cosa ne pensate? Riconoscete questo
trend evolutivo? Lo ritrovate anche
in servizi destinati ad altri target di utenza?