Eccoci alla quarta storia. Vi voglio
raccontare delle esperienze che ho fatto come educatrice domiciliare che, per
chi non lo sapesse, non è né una tata, né una badante. Nemmeno ‘un badante’
stile Quasi amici, seppur questo sia
un film dalla cui idea generale poter trarre riferimenti di pensiero
interessanti.
L’immagine è stata tratta dal film Quasi amici, di Olivier Nakache, Eric Toledano, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera
Del lavoro educativo in ambito di
Tutela minorile, parlerò nelle prossime storie. Oggi voglio trattenervi ancora
sul tema della diversità. Questa volta uscendo dalla comunità alloggio per persone
disabili, bussando invece alla porta di due case, due famiglie, in cui ho
lavorato.
‘E’ permesso?’
La risposta è quasi stata sempre
sì. E io entravo. Ma so bene quanta fatica sia costata loro il farmi entrare
non solo in quella che è la loro casa, ma più che altro in quella che è la loro
intimità, fortemente provata da situazioni di fragilità che, una volta aperta
la porta, non avevano più la possibilità di rifugiarsi.
Il mio primo passo oltre la
soglia era sempre accompagnato da gesti di delicatezza e rispetto verso le
persone presenti e le attività che stavano conducendo, interrotte dal suono del
campanello premuto dal mio indice. Questo nessuno me l’ha insegnato in
Università. Deriva forse più da ciò che mi hanno insegnato i miei genitori: il
rispetto dell’altro. E io mi sono portata questo insegnamento nel lavoro,
immaginandomi ogni volta cosa sarebbe successo se, dall’altra parte di quella
porta, ci fossi stata io con la mia famiglia: mi sarebbe piaciuto che l’educatrice,
inviata dal servizio sociale, entrasse con delicatezza e che POI facesse il suo
lavoro. E così ho sempre fatto.
In entrambe le esperienze di cui
vi narro, le famiglie avevano a che fare, tutti i giorni con la disabilità, la
malattia psichiatrica, la povertà economica e culturale. Genitori e figli a
navigar nell’impetuoso mar di una società che è sempre troppo in tempesta per
loro, sempre troppo veloce, troppo cattiva. E per questo era bene chiudere la
porta di casa a più mandate, perché almeno, dentro, ci si poteva riparare.
Entrando, chiudevo subito la
porta dietro di me. E poi, cercando di rispettare il più possibile i tempi di
ognuno dei familiari, perché quella diversa,
in quelle case, ero io, estraevo dalla mia sacca ciò che avevo a disposizione
per proteggersi dalla bufera; la porta si riapriva e, insieme, ci si allenava
ad affrontare il mondo fuori da lì.
E di allenamento in allenamento,
nessun miracolo è avvenuto, ma la fatica affrontata settimanalmente ha permesso
di scorgere qualche ancoraggio per trovare sosta, ogni tanto, anche in mare
aperto.
Riallacciare relazioni con parenti che, quando hanno tempo, possono dare una mano; insegnare cosa poter chiedere alla scuola dei propri figli e cosa no e in quali momenti; come chiedere aiuto ai servizi sociali capendo che non è vero che tutto è dovuto. Mostrare a negozianti e vicini di casa, che nessuno è un alieno, ma ognuno è particolare a suo modo e basta imparare a comunicare un po’ con tutti e non solo con chi è più facile (se lo facevo io, e mi vedevano farlo, potevano benissimo farlo anche loro); trovare il coraggio per frequentare centri diurni in cui divertirsi e impegnarsi nella ricerca delle proprie abilità, mentre i genitori potevano badare alla casa, andare in posta, fare la spesa, preparare la cena e impostare gli spazi casalinghi in modo che ci fossero quelli dedicati alla convivenza e quelli destinati all’intimità, così che l’ordine materiale aiutasse anche a fare ordine relazionale. Capire quando si è stanchi e non si riesce proprio ad affrontare la fatica di rapportarsi con tutta quella gente diversa che gira per le strade. Perché anche chi è socialmente considerato diverso, deve fare i conti necessariamente con la diversità altrui. A partire da me, la loro educatrice. Alleniamoci quindi a dire a Manuela ‘Oggi non ce la faccio, non ho voglia di stare con te’, invece che arrabbiarsi, strillare, sputare, agitarsi, spintonare e graffiare. Perché di gente come Manuela il mondo è pieno, ma non sono tutti e tutte pagate come lei, per ritornare da noi. E non è bello sentirsi soli ed esclusi.
Riallacciare relazioni con parenti che, quando hanno tempo, possono dare una mano; insegnare cosa poter chiedere alla scuola dei propri figli e cosa no e in quali momenti; come chiedere aiuto ai servizi sociali capendo che non è vero che tutto è dovuto. Mostrare a negozianti e vicini di casa, che nessuno è un alieno, ma ognuno è particolare a suo modo e basta imparare a comunicare un po’ con tutti e non solo con chi è più facile (se lo facevo io, e mi vedevano farlo, potevano benissimo farlo anche loro); trovare il coraggio per frequentare centri diurni in cui divertirsi e impegnarsi nella ricerca delle proprie abilità, mentre i genitori potevano badare alla casa, andare in posta, fare la spesa, preparare la cena e impostare gli spazi casalinghi in modo che ci fossero quelli dedicati alla convivenza e quelli destinati all’intimità, così che l’ordine materiale aiutasse anche a fare ordine relazionale. Capire quando si è stanchi e non si riesce proprio ad affrontare la fatica di rapportarsi con tutta quella gente diversa che gira per le strade. Perché anche chi è socialmente considerato diverso, deve fare i conti necessariamente con la diversità altrui. A partire da me, la loro educatrice. Alleniamoci quindi a dire a Manuela ‘Oggi non ce la faccio, non ho voglia di stare con te’, invece che arrabbiarsi, strillare, sputare, agitarsi, spintonare e graffiare. Perché di gente come Manuela il mondo è pieno, ma non sono tutti e tutte pagate come lei, per ritornare da noi. E non è bello sentirsi soli ed esclusi.
Lavorare come educatori ed educatrici
in contesti familiari in cui la disabilità è di casa, vuol dire infatti potenziare al massimo lo strumento che
siamo, semplicemente perché ci siamo.
E con la nostra persona portiamo uno spaccato del mondo che ogni giorno, le
persone più fragili devono duramente affrontare.
Il mondo è un mare impetuso. Quindi,
bando alla ciance: generare pietismo ci dà una spinta solo per poche miglia
nautiche. Poi le onde ingrossano e l’imbarcazione affonda. È necessario diventare
marinai il più esperti possibile.
Rivedermi come nostromo, mi fa
sorridere. E un dolce ricordo va a queste famiglie che hanno imparato a
sopportarmi.
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