Dopo una pausa dovuta a festività
e a qualche imprevisto di vita, ritorno a scrivere in questo processo di
narrazione delle mie esperienze professionali.
Uno degli abiti che
professionalmente indosso è quello di coordinatrice di servizi educativi per la
Tutela minorile.
Sto parlando di educativa domiciliare, spazi neutro, mediazioni educative, tutoring, centri diurni educativi , incontri protetti e altre azioni e servizi educativi che di volta in volte possono essere attivati.
Sto parlando di educativa domiciliare, spazi neutro, mediazioni educative, tutoring, centri diurni educativi , incontri protetti e altre azioni e servizi educativi che di volta in volte possono essere attivati.
Tutti questi servizi sono
accomunati dall’essere servizi territoriali. Operano quindi nel territorio in
cui i minori e le loro famiglie vivono. E al di là delle specificità che
contraddistinguono ognuna di queste tipologie di intervento, quando si lavora
in Tutela si lavora per proteggere
qualcuno e qualcosa.
L’immagine è stata tratta dal film Polisse, diretto e interpretato da Maïwenn, e liberamente modificata da Roberto Macalli - Stampa&Rigenera
Ma chi e che cosa proteggere?
Il lavoro educativo in questi
servizi ha origine dall’impianto legislativo che protegge i minori, e per
questo si chiama Tutela minorile, ma
il nostro lavoro ha bisogno di trovare percorsi propri per esprimersi al
meglio.
A livello educativo dunque, ciò
che c’è da proteggere è l’esperienza
educativa che si propone: cosa ha da imparare un minore che vive in un
nucleo familiare fragile? E cosa deve imparare la sua famiglia?
Vi faccio alcuni esempi: per chi
vive in queste situazioni di difficoltà, c’è spesso bisogno di imparare a
crescere come individui, giovani e adulti, che non hanno avuto tutte le fortune
di questo mondo; conoscere e accettare le particolarità del proprio nucleo
familiare, salvando le proprie possibilità di riscatto esistenziale; che nessun
genitore è perfetto, ma che l’importante è interrogarsi sulle proprie modalità
genitoriali; immaginarsi il tipo di famiglia che si vorrà costruire e se si
avrà voglia di costruirla; cosa sbaglio nell’interazione con mio figlio o con i
miei genitori e quali altre possibilità relazionali ho a disposizione e posso
cogliere; come faccio a essere genitore anche se i rapporti con il mio partner
si sono interrotti bruscamente, a tal punto che si è valutato necessario l’intervento
dei servizi sociali; ricordarsi che esiste un mondo fuori dalla 4 mura
domestiche e che, se all’interno si fa fatica a vivere, il mondo fuori può dare
possibilità di vita.
Il lavoro educativo in Tutela
minorile ha bisogno di potenziare questa visione sociale delle proprie azioni. Un
conto è rispettare la privacy delle persone in carico ai servizi sociali, un
conto è rinunciare alla dimensione sociale delle azioni educative. Perché l’educativo
perde il suo senso più profondo se si rinchiude tra le 4 mura. Persino l’educazione
naturale ha senso perché ‘ciò che si impara in casa’ servirà poi per essere
parte del mondo. E l’educazione professionale non può dimenticarsene.
È difficile, certo, gironzolare
per le vie del paese o della città con un educatore, che non si sa nemmeno mai
come presentare, perché farlo vuol dire lavare i propri panni sporchi in
piazza. È prezioso l’aiuto che l’educatore stesso può dare in questi momenti,
capendo di volta in volta quanto esporsi ed esporre e quanto far passare
inosservato, proteggere appunto. Ma è anche di valore insegnare alla società
che tutti possono affrontare fatiche e aver bisogno di aiuto. E che non si è
persone peggiori se si ha bisogno, ma che ci vuole tanto coraggio nel farsi
aiutare. In un mondo in cui è necessario figurare sempre come i primi e i
migliori, il lavoro educativo in Tutela minorile può insegnare molto.
Come coordinatrice pedagogica
lavoro attualmente con due équipe e 8 educatori in totale. Il mio compito
consiste nell’accompagnare ognuno di questi colleghi nelle pratiche e nelle
scelte educative che devono compiere quotidianamente. Aiutarli a distinguere
ciò che è emergenza, e capire come e se attivarsi di conseguenza, e cosa invece
rientra nella ‘normalità’ di vite affaticate, che hanno bisogno di un supporto
ma anche di imparare a convivere con le proprie fatiche, sviluppando man mano
competenze di resilienza e consapevolezza delle proprie condizioni e delle
potenzialità che noi abbiamo visto in loro e abbiamo il compito di mostrare.
Non è facile entrare in case
altrui e vestire il ruolo educativo. Ci si sente di troppo, si sente ogni
giorno la fatica che facciamo fare. Ma visto che ci siamo è necessario far
fruttare le scomodità che generiamo, per poter salutare il più in fretta
possibile i nuclei familiari che spesso, nel frattempo, hanno imparato ad
accettarci.
Il ruolo di coordinamento che
rivesto ha anche il dovere di far incontrare il mandato sociale con il mandato pedagogico. Il primo è il
motivo per cui i servizi sociali chiedono l’attivazione dell’intervento
educativo. Il secondo è il motivo per
cui queste famiglie hanno bisogno di un educatore e non di altri esperti o di
semplici controllori e osservatori. Il mandato pedagogico si sostanzia
nella domanda cosa ha bisogno di imparare
questo nucleo familiare? Che cosa possiamo insegnare loro? Quale intervento educativo,
tra i tanti di cui dispone la Tutela minorile, è giusto attivare? Qual è il
modello pedagogico che caratterizza la cooperativa sociale per cui lavoriamo?
E gironzolo quindi settimanalmente
tra i servizi sociali, con o senza educatori, per continuare a rendere sempre
più prossimi gli ideali di intervento e di scelte pedagogiche con le
possibilità reali che ci sono. È un incontro tra culture professionali quello
che avviene ogni volta che mi siedo davanti, o di fianco, ad assistenti sociali
e psicologhe o psicologi della Tutela. Capita di non essere d’accordo, che il
pedagogico venga visto come un lusso che non ci si può permettere quando una
famiglia ha bisogno di aiuto. E nel tempo ho imparato a cogliere il valore di
queste resistenze: non ci si può mai incontrare se non si fa un passo verso l’altro.
E compiere questo passo permette poi di aprire possibilità al pedagogico. E io
posso tornare a casa o dirigermi verso altri servizi sociali, soddisfatta per
aver fatto il lavoro che amo e per aver contribuito a costruire un pezzo in più
di integrazione tra culture
professionali, organizzative e personali differenti.
Vi saluto ora. Mi stanno aspettando in un servizio sociale!