Spesso capita che prodotti e servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono infatti un’offerta al pubblico,
qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento
con i tempi, la possibilità di
rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente
utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.
In questi ultimi anni però sto
assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si
sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso. Mi riferiscono ai
servizi afferenti alle Politiche giovanili, da me molto frequentati per motivi
di lavoro.
Tutto è cominciato, per lo meno
in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in
cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore
di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di
aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.
Dagli anni ’80 sono stati questi
i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione
secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di
delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati
infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero,
per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di
disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro
lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al
di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio.
L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi
informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali,
quelli per cui, per esempio, ‘Io in un centro di aggregazione non ci andrò
mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla
loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla
prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che più si sta lontano dallo sguardo adulto, più
è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare dannose per
la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a declinare il
tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della loro voglia di
in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che sentono più
stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di frequentarli.
Al giorno d’oggi, di Educative di
strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di
aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché
soprattutto? Al di là di risposte a favore o contro la permanenza di questi
servizi, ciò che a mio parere è un dovere professionale del pedagogico è porsi
la domanda: siamo certi che i servizi oggi in essere accolgano
i bisogni socio-educativi attuali dei cittadini a cui sono offerti?
Riguardo alle Politiche giovanili
trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che
hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che
sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono
offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta,
gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i
centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta. Mi
si potrà dire che tutto ciò è sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un
decennio in servizi per i giovani, risponderò che invece non sempre è stato
così. I centri di aggregazione spesso si sono isolati, sono diventati ghetti
dorati per ragazzi e ragazze che hanno compiuto percorsi educativi molto ricchi
e interessanti, ma di cui molto spesso si è faticato a mostrarne alla comunità
il valore e la portata. E non basta che educatori e coordinatori siano stati capaci
di porre in evidenza i progetti e le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è
che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno attraversato
quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si sente come bisogno
attuale è che la comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo
loro servizi, ma che ci sia una presa d’atto di corresponsabilità e che questa
corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti in prima persona e non delegata
ai professionisti. Competenza di questi ultimi quindi sarà quella di costruire
occasioni di scambio, di formazione in itinere e di presa in carico in cui ogni
cittadino si attiva, a partire dal ruolo sociale che riveste in quello
specifico incontro.
C’è in atto una vera e propria
evoluzione di senso. Non esistono più i ragazzi del centro di aggregazione tal dei tali, esistono invece i ragazzi
di quel paese, di quella città, in cui tra le varie
offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro frequentano. Cosa vuol
dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto per i non addetti al
lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo è che non basta più
che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un target dei propri
cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo degli operatori che
la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo settore e volontariato co-progettino
a partire dall’azione del bando di gara, si co-attivino e a cascata convochino
i diversi soggetti territoriali. Questo perché è anacronistico pensare che ai
giovani di oggi possano bastare le offerte, pur ben pensate, di un unico
servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione
dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini
legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli,
fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati
nella strutturazione di ponti semantici
che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia,
non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita
reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di
aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani
nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un
parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.
In effetti, il problema non è e non può più essere,
interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite,
in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro;
un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi
educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale
aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni,
sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio
sociale di funzionare da possibile “connettore”,
affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone,
2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata
al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo
frequentano abitualmente? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva
giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si
occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti
abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli
interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il
luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.
Sono gli adulti, professionisti e
non, che ancora una volta devono evolvere i propri paradigmi di pensiero. I
ragazzi e le ragazze già da anni, ci segnano la strada. E non perché siano più
intelligenti, non voglio necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono
spontaneamente cogliendo ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di
fuori di ogni preconcetto e formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un
centro di aggregazione, non può essere geloso delle proprie iniziative. Deve
offrire un servizio alla cittadinanza, trasformarsi da centro a polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di
connettere reti di interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria
specificità di offerta, altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere
poli cloni.
Non mi sono dimenticata delle
Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale:
educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da
gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico
e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul
territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi
tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di
accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di
confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.
A mio parere è questo che al
giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di
avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di
promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro
e di presa in carico. Questo è formare una comunità perché evolva dall’offerta di
servizi competenti (che sono anche più costosi) all’assunzione delle proprie
responsabilità educative, diventando una comunità
competente.
Esistono simili possibilità
evolutive per servizi educativi destinati a target socio-pedagogici differenti
di popolazione? Penso ai centri per persone disabili, alle comunità alloggio
destinate ai diversi disagi, alle educative domiciliari e la lista può ancora
allungarsi. Sarebbe interessante pensarci e scoprirlo.
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