Oggi ho appreso della morte di un'amica. Una ragazza di 34 anni come me, conosciuta qualche anno fa, quando per lavoro, ho trascorso una settimana nella Comunità di Frascaro di San Benedetto al Porto. Nell'articolo che ho scritto in occasione della morte di Don Gallo, ne troverete traccia.
Ho saputo della morte di Lisa tramite un post di Facebook. Ho chiamato Graziella, la responsabile della Comunità di Frascaro: mi ha detto che non c'è
stato nulla da fare. Tempo fa Lisa ha lasciato la comunità. Dopo un percorso in risalita, sono subentrate numerose compromissioni di salute e la voglia di farcela non ha retto. Gli operatori l'hanno seguita a domicilio per
un po', chiedendole di ritornare in struttura, perchè troppo debole per farcela di nuovo, ma Lisa 'ha fatto le sue scelte'. Non ha voluto tornare.
Potremmo stare qui per ore a discutere dei pro e dei contro, di scelte e non scelte, di responsabilità e dannazione. Ma io vi dico che a me piace questa impostazione educativa by Don Gallo:
essere capaci di rispettare le scelte individuali, anche quando si direzionano
verso l'impossibile e l'inesorabile.
Angoscioso sì, ma molto umano ed educativo. Laddove per educativo vogliamo intendere un processo per cui si affiancano professionalmente le persone a partire dalle loro condizioni esistenziali, evitando di volerle sradicare prepotentemente dalla realtà in cui hanno vissuto e che ha formato il loro modo di guardare la vita e il mondo.
Leggevo qualche settimana fa la tesi che un mio amico e collega, Matteo Ripamonti, ha scritto per il suo Dottorato: un'analisi del dispositivo educativo delle comunità per persone tossicodipendenti.
Matteo si è
interrogato sul dispositivo di questi servizi per cui si è portati come operatori a dare responsabilità
totale alla persona circa la sua condizione di tossicodipendente, ma
contemporaneamente si annulla, una volta entrati in comunità, qualsiasi
possibilità di scelta adulta sul proprio percorso. Matteo raccontava di un quarantenne
che, a suo tempo ospite della struttura in cui Matteo stesso lavorava come educatore, in occasione di una giornata di gita fuori porta, gli chiedeva se
potesse fare il bagno nel lago, dopo pranzo. La risposta è stata: 'Hai dieci anni in più di me, non devo essere
certo io a dirti se fare il bagno o meno dopo aver pranzato'.
Oggi, in occasione della notizia della morte di Lisa, ancora una volta ho capito perchè il 'modello educativo di Don Gallo' a me piace molto, come persona e come professionista dell'educazione. Gli operatori che lavorano nella Comunità di San Benedetto al Porto, danno dignità
alle persone di cui si occupano. Se sono persone adulte, come per la maggior parte sono gli ospiti delle loro strutture, si rapportano a loro riconoscendone prima di tutto l'adultità e il diritto alla scelta sulla propria vita.
Con ciò non vuol dire che non si adoperino per aiutarli ad uscire dalla loro condizione di tossicodipendenza. Ma che se si raggiunge questo obiettivo, è perchè il percorso è stato co-costruito, non imposto. E perchè, come probabilmente è successo per Lisa, se non si riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, non si viene abbandonati, ma accompagnati nella vita che si sceglie, perchè la scelta sia il più consapevole possibile.
Per questo stimo molto l'opera di San Benedetto al Porto. Sono coerenti fino
in fondo con i valori sociali che diffondono, non chiudono le comunità ghettizzando i loro ospiti, ma li aiutano a stare in contesti sociali in cui, con le dovute risorse, possono compiere nuove scelte. Volendolo.
Spesso questo modello non viene capito. E' in netta controtendenza rispetto ai modelli terapeutici e riabilitativi. E io ritengo sia un fiore all'occhiello dell'impostazione pedagogica di questa tipologia di servizi.
Ieri sentivo al TG di una comunità per persone tossicodipendenti di Milano: completamente allagati dall'esondazione del Lambro, hanno trasferito gli ospiti della comunità in attesa di sistemare e bonificare la struttura e la zona. E mi son chiesta, e oggi a maggior ragione mi chiedo: perchè non hanno lasciato gli ospiti a lavorare per la comunità in cui vivono? Sono persone adulte. Devono e possono agire responsabilmente. Certo, tra loro potrebbe esserci qualche persona che oltre alla tossicodipendenza è malata per compromissioni di diverso tipo. Va bene. Le persone malate, che non riescono a lavorare, devono essere protette. Ma una persona adulta tossicodipendente è per forza e sempre una persona malata? Io dico di no.
E forse, scardinare dalla tossicodipendenza i concetti di malattia, infermità e minorità, riportando al centro la dignità della persona e la possibilità di autoderminazione adulta, aiuterebbe di più e meglio chi è finito nel vortice della dipendenza, le loro famiglie e la società in cui, malgrado chi vorrebbe 'ripulire e ghettizzare', tutti loro e noi viviamo.
A tutti coloro che hanno conosciuto e amato Lisa, faccio le mie sincere condoglianze.
Buon viaggio Lisa. Salutaci Don Gallo!
Di incontri sono fatte le vite. Di certo ne è fatta la mia. Un po' per predisposizione naturale, un po' per professione, sono una donna e una pedagogista che vive attraverso innumerevoli incontri, in cui mostro l'intenzione pedagogica di insegnare e ho la continua possibilità di imparare.
lunedì 17 novembre 2014
venerdì 31 ottobre 2014
Evoluzioni di senso, non solo di forma
Spesso capita che prodotti e servizi cambino nome, ma non sostanza. Costituiscono infatti un’offerta al pubblico,
qualcosa che serve alle persone. Cambiare nome a volte permette un aggiornamento
con i tempi, la possibilità di
rimanere accattivante sul mercato, di essere ‘venduto’, perché continuamente
utilizzato. Lo stesso vale per i Servizi socio-educativi.
In questi ultimi anni però sto
assistendo ad un fenomeno nuovo. Esistono alcuni servizi educativi a cui non si
sta facendo solo un restyling di forma, bensì di senso. Mi riferiscono ai
servizi afferenti alle Politiche giovanili, da me molto frequentati per motivi
di lavoro.
Tutto è cominciato, per lo meno
in Italia e nel milanese, tre anni fa o poco più. È questa una delle volte in
cui la contrazione di risorse economiche ha permesso agli operatori di settore
di compiere una virata netta, lasciandosi alle spalle il concetto di centro di
aggregazione giovanile e le azioni di educativa di strada.
Dagli anni ’80 sono stati questi
i due servizi destinati per mandato sociale ai compiti di prevenzione
secondaria nel tempo libero. Il pensiero pedagogico si è da subito premurato di
delinearne la loro funzione educativa. I centri di aggregazione sono stati
infatti luoghi in cui gli educatori incontrano i ragazzi nel loro tempo libero,
per offrire occasioni di progettazione di vita. Si sa infatti che i momenti di
disimpegno sono perfetti per sognare e sognarsi, immaginarsi in un futuro
lontano ma anche prossimo, pensare a come sarà la vita ‘da grandi’, da adulti. Al
di là che si viva in condizioni di cosiddetta normalità o di disagio.
L’educativa di strada invece è stata pensata per raggiungere quei gruppi
informali di ragazzi e ragazze che sono restii alle appartenenze istituzionali,
quelli per cui, per esempio, ‘Io in un centro di aggregazione non ci andrò
mai’, ma che hanno voglia di dire la loro e di mostrare cosa possono dare alla
loro comunità. Anche qui l’occhio del mandato sociale vuole lavorare sulla
prevenzione e sulla riduzione del danno, perché è luogo comune che più si sta lontano dallo sguardo adulto, più
è facile inciampare in abitudini che alla lunga possono diventare dannose per
la persona. E ancora una volta lo sguardo pedagogico è riuscito a declinare il
tutto, insegnando a questi ragazzi e ragazze cosa farsene della loro voglia di
in appartenenza e di come imparare a stare in una comunità che sentono più
stretta dei coetanei che almeno i centri di aggregazione decidono di frequentarli.
Al giorno d’oggi, di Educative di
strada, da queste parti, non se ne ritrova quasi più traccia. I centri di
aggregazione invece, non tutti, resistono ancora. Ma per quanto? E perché
soprattutto? Al di là di risposte a favore o contro la permanenza di questi
servizi, ciò che a mio parere è un dovere professionale del pedagogico è porsi
la domanda: siamo certi che i servizi oggi in essere accolgano
i bisogni socio-educativi attuali dei cittadini a cui sono offerti?
Riguardo alle Politiche giovanili
trovo molto interessanti alcune sperimentazioni del territorio milanese che
hanno voluto trasformare i centri di aggregazione in hub territoriali, poli che trovano un senso non tanto per ciò che
sono all’interno delle loro quattro mura, quanto più per ciò che possono
offrire a partire dalla co-progettazione con gli hub a loro confinanti: la comunità giovanile, la comunità adulta,
gli Oratori, le polisportive, i centri per persone disabili, la scuola, i
centri anziani, i servizi per il volontariato e chi più ne ha più ne metta. Mi
si potrà dire che tutto ciò è sempre avvenuto. Io, che lavoro da più di un
decennio in servizi per i giovani, risponderò che invece non sempre è stato
così. I centri di aggregazione spesso si sono isolati, sono diventati ghetti
dorati per ragazzi e ragazze che hanno compiuto percorsi educativi molto ricchi
e interessanti, ma di cui molto spesso si è faticato a mostrarne alla comunità
il valore e la portata. E non basta che educatori e coordinatori siano stati capaci
di porre in evidenza i progetti e le intenzioni. Ciò che conta, a mio avviso, è
che i gruppi di ragazzi e ragazze che li hanno frequentati, hanno attraversato
quel servizio, non la comunità in cui vivono. Quello che si sente come bisogno
attuale è che la comunità si occupi dei propri cittadini, non solo offrendo
loro servizi, ma che ci sia una presa d’atto di corresponsabilità e che questa
corresponsabilità sia attiva, giocata da tutti in prima persona e non delegata
ai professionisti. Competenza di questi ultimi quindi sarà quella di costruire
occasioni di scambio, di formazione in itinere e di presa in carico in cui ogni
cittadino si attiva, a partire dal ruolo sociale che riveste in quello
specifico incontro.
C’è in atto una vera e propria
evoluzione di senso. Non esistono più i ragazzi del centro di aggregazione tal dei tali, esistono invece i ragazzi
di quel paese, di quella città, in cui tra le varie
offerte esiste anche un centro di aggregazione che loro frequentano. Cosa vuol
dire? Cerco di chiarificare il mio pensiero soprattutto per i non addetti al
lavoro con i giovani: ciò che a mio avviso sta succedendo è che non basta più
che un Ente pubblico deleghi ad un Servizio la cura di un target dei propri
cittadini, finanziando le spese della struttura e il costo degli operatori che
la gestiscono. Oggi è necessario che Pubblico, Terzo settore e volontariato co-progettino
a partire dall’azione del bando di gara, si co-attivino e a cascata convochino
i diversi soggetti territoriali. Questo perché è anacronistico pensare che ai
giovani di oggi possano bastare le offerte, pur ben pensate, di un unico
servizio. I ragazzi e le ragazze oggi navigano nel web, non hanno la percezione
dei confini geografici del proprio paese o del proprio quartiere, hanno confini
legati ai propri interessi e si spostano laddove possono coltivarli,
fisicamente o digitalmente. Hanno quindi il diritto di essere accompagnati
nella strutturazione di ponti semantici
che permettano loro di tessere una rete territoriale, che non imbriglia,
non trattiene, ma costruisce possibilità concrete di scambio e di crescita
reciproca. Ciò che i ragazzi e le ragazze esprimono in un centro di
aggregazione, difficilmente sarà differente da ciò che portano altri giovani
nell’Oratorio che frequentano, nelle polisportive, sulle panchine di un
parchetto o nel servizio di volontariato in cui operano.
In effetti, il problema non è e non può più essere,
interrogarsi sulla definizione di spazi sociali capaci di funzionare da calamite,
in grado perciò di coinvolgere adolescenti all’interno del proprio perimetro;
un perimetro cui corrisponde spesso anche il raggio di azione dei luoghi
educativi così immaginati. Il problema, esattamente all’opposto dell’ideale
aggregativo, è quello di lavorare sulle dispersioni,
sulle circolazioni, sulle potenziali traiettorie e sulla capacità di uno spazio
sociale di funzionare da possibile “connettore”,
affinché tali movimenti intercettino le risorse di un territorio. (Barone,
2009, pag.170)
Perché quindi un’attività pensata
al centro di aggregazione non può incontrare anche i ragazzi che non lo
frequentano abitualmente? E perché una attività ideata, per esempio, in una polisportiva
giovanile non può essere allargata alle altre agenzie del territorio che si
occupano di giovani? Diverso è pensare a una attività calata sui frequentanti
abituali e poi promuoverla anche ‘al di fuori’, dal progettare a partire dagli
interessi dei giovani di un paese e decidere in seconda battuta quale sia il
luogo fisico in cui proporla aprendo le porte a tutti i potenziali interessati.
Sono gli adulti, professionisti e
non, che ancora una volta devono evolvere i propri paradigmi di pensiero. I
ragazzi e le ragazze già da anni, ci segnano la strada. E non perché siano più
intelligenti, non voglio necessariamente elogiarli. Semplicemente perché vivono
spontaneamente cogliendo ciò che li raggiunge, ne seguono la tendenza, al di
fuori di ogni preconcetto e formattazione adulta. Un servizio pubblico, come un
centro di aggregazione, non può essere geloso delle proprie iniziative. Deve
offrire un servizio alla cittadinanza, trasformarsi da centro a polo tra i tanti in cui si dà la possibilità di
connettere reti di interessi e territoriali. Mantenendo certo la propria
specificità di offerta, altrimenti, come sempre è stato, non servirebbe avere
poli cloni.
Non mi sono dimenticata delle
Educative di strada. Oggi esistono sperimentazioni di Educativa territoriale:
educatori che girano ancora per le strade, i parchi e i luoghi frequentati da
gruppi informali di ragazzi, ma che contemporaneamente, come mandato specifico
e non come effetto collaterale, connettono le diverse agenzie che sul
territorio si occupano di giovani, ne permettono l’incontro, mostrano i nessi
tra le diverse progettazioni e le possibilità, rinforzano una rete capace di
accogliere i bisogni e gli interessi dei giovani e creano occasione di
confronto tra gli adulti che queste realtà sostengono.
A mio parere è questo che al
giorno d’oggi significa occuparsi di Politiche giovanili. Questo permette di
avvicinare la politica alle persone, lontano dagli slogan propagandistici e di
promozione di un’appartenenza. Questo è offrire occasioni solidali di incontro
e di presa in carico. Questo è formare una comunità perché evolva dall’offerta di
servizi competenti (che sono anche più costosi) all’assunzione delle proprie
responsabilità educative, diventando una comunità
competente.
Esistono simili possibilità
evolutive per servizi educativi destinati a target socio-pedagogici differenti
di popolazione? Penso ai centri per persone disabili, alle comunità alloggio
destinate ai diversi disagi, alle educative domiciliari e la lista può ancora
allungarsi. Sarebbe interessante pensarci e scoprirlo.
giovedì 28 agosto 2014
#pensodunquebloggodue - Circolarità comunicativa e fenomeno educativo
I blogger del gruppo Snodi Pedagogici hanno scritto, e oggi pubblicano, una serie di articoli sui propri blog, inerenti ai Blogging Day precedenti: #EducazionEAmore, #EducazionEbellezza, #PedagogicAlert.
Una sorta di conclusione su quanto è emerso fino ad oggi grazie ai vostri contributi, per rileggere assieme a voi i passaggi fondamentali, provando a dare delle risposte ma anche porre e porsi nuove domande, in vista dell'antologia che verrà pubblicata ad autunno e il cui ricavato andrà in beneficenza alla "Locanda dei Girasoli" di Roma.
Circolarità comunicativa e fenomeno educativo
In un articolo precedente ho trattato del valore educativo della circolarità comunicativa.
A dire il vero,
in quelle righe, ho maggiormente riflettuto rispetto al rapporto tra narrazione
ed educazione, lasciando sullo sfondo il lungo concetto che qui ora mi appresto
ad approfondire.
Snodi Pedagogici si è imbattuto
nell’esperienza dei Blogging Day. Otto, da gennaio ad agosto di quest’anno. Sei,
hanno visto il contributo di scrittori ospitati sui blog degli appartenenti al
gruppo. Due, tra cui questi del #pensodunquebloggodue, sono invece stati eventi
di rilettura degli articoli pubblicati allo scopo di tracciare linee di
pensiero che raccontassero di questa esperienza e che mettessero in rilievo il
valore pedagogico della scrittura di esperienze educative.
Confrontandoci tra noi qualche
mese fa, rigorosamente in rete, ci siamo imbattuti nel concetto di Circolarità comunicativa, che per noi,
fin da subito, ha voluto significare non solo la possibilità di far circolare
contenuti e letture sul web, ma soprattutto una struttura importante del
fenomeno educativo.
Mi spiego meglio. Se si cerca su Google, per circolarità comunicativa si intende il processo che la comunicazione attraversa passando dall’emittente del messaggio al ricevente, tornando poi, a mo’ di feedback, all’emittente. E va bene. Questo è il dato tecnico della faccenda ed è ben conosciuto.
Mi spiego meglio. Se si cerca su Google, per circolarità comunicativa si intende il processo che la comunicazione attraversa passando dall’emittente del messaggio al ricevente, tornando poi, a mo’ di feedback, all’emittente. E va bene. Questo è il dato tecnico della faccenda ed è ben conosciuto.
Ma la Circolarità comunicativa
può essere un fattore, una struttura dell’Educazione?
Virginia Fiume, scrivendo per il Blogging Day #pedagogicalert, ha
trattato dei rischi educativi mettendo a fuoco i pericoli e le derive
dell’istruzione e dei sistemi di potere. Una sorta di ripresa, tutta
contemporanea, del pensiero classico di M. Foucault che, nei sui testi, tra cui
Surveiller et punir (1975), dice:
Sorveglianza, esercizio, manovre,
annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un
sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare
le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali,
nell’esercito, nelle scuole, nelle fabbriche: la disciplina.
E così,
Virginia dice, attualizzando:
“Aaron Swartz per me rappresenta
il promemoria quotidiano dell'esistenza di un lato oscuro dell'educazione. Quel
punto in cui l'educazione smette di assolvere la sua funzione etimologica, il
“portare fuori” di ex+ducere, e si trasforma nell'imbuto, in qualcosa che
“mette dentro”. L'educatore come qualcuno che infila le idee nella testa degli
studenti, invece che favorire lo sviluppo dello spirito critico. Il sistema
educativo che inserisce le fonti a cui si dovrebbe attingere per aumentare e
condividere la conoscenza in depositi costosissimi, invece che renderle
accessibili.”
L’autrice dell’articolo poi,
giornalista che gira il Mondo ed ora
abita e lavora a Londra, citando l’Associazione AssoEtica con cui collabora,
racconta di una delle possibilità che ad oggi si hanno per riuscire a
modificare il sistema imperante di controllo (economico), standoci dentro, ma cambiandone i paradigmi di valutazione, riprendendo uno stralcio riportato sul sito dell'Associazione:
“Ciò significa che per fare
dell’etica un vantaggio competitivo, si deve andare oltre la certificazione,
facendo leva sulla propria diversità e sui propri caratteri distintivi -già
esistenti o costruibili nel tempo- tramite adeguate politiche. AssoEtica,
quando chiamata a fornire un modello di atteggiamento etico, risponde con
l’indicazione che il modello deve emergere dalla storia, dalla cultura, dalle
strategie dell’azienda stessa. AssoEtica si impegna quindi a lavorare per far
emergere quel ‘modello etico’ aziendale nella sua irrinunciabile unicità ma
condiviso da tutti i portatori di interessi -gli stakeholders- coinvolti nelle
attività […]. Si impegna a fornire gli strumenti e i metodi per innescare il
circolo virtuoso e garantire il miglioramento continuo nella relazione
cliente/fornitore. Un impegno che non può essere di certificazione – poiché il
‘certificare’ rimanda all’idea di ‘vagliare’, ‘passare al setaccio’ e cernere,
distinguere ciò che è ‘giusto’ e cosa è ‘sbagliato’ – ma piuttosto di asseverazione,
di testimonianza solenne. Il testimone, infatti, è colui che si pone nel ruolo
di terzo, ‘arbitro’ che cerca e promuove l’incontro tra punti di vista diversi
perché diversi sono gli interessi in campo […]. Tutti portatori di crescenti aspettative,
di legittimi interessi e anche di legittimi diritti. ”
Tutto ciò c’entra con
l’Educazione, perché al di là di quello che si comunica verbalmente, ciò che
forgia i sistemi sono le strutture materiali che vengono adottate e che fanno
circolare messaggi profondi sulle modalità di vivere, a cui poi noi, ignari, ci
adattiamo inconsapevolmente (R. Massa, Le
tecniche e i corpi. Verso una scienza dell’educazione, 1986). L’Educazione
vista quindi soprattutto come un dispositivo,
che dispone appunto i corpi negli spazi, secondo tempi precisi, attraverso la 'manipolazione' di oggetti scelti a dovere.
Andrea Fontana, imprenditore, docente e storytelling expert, rintraccia nelle storie e nelle narrazioni che il Marketing utilizza, un dispositivo ordinatore:
“Una storia è un dispositivo
ordinatore, è uno strumento che sistematizza gli eventi umani dando loro un
senso e una direzione”, perché “Le storie sono potenti. Invadono le nostre
vite.
Ci rimangono per anni nell’animo e poi esplodono nelle nostre realtà”.
Ci rimangono per anni nell’animo e poi esplodono nelle nostre realtà”.
Ed è così che ad oggi, pur non
venendo meno i dispositivi classici, la realtà viene costruita e trasmessa a
chi la vive, secondo il sapiente utilizzo dei metodi informativo/comunicativi.
L’Educazione ancora una volta sta rischiando di lasciarsi sfuggire le sue
proprie potenzialità, lasciandone il libero utilizzo al marketing aziendale,
senza nemmeno chiederne un ritorno. È questo un capitolo estremamente
interessante da approfondire. Non è qui che intendo farlo. E' certo però che le
comunicazioni messe in circolazione plasmano i pensieri. Ognuno di noi,
individualmente e nelle Organizzazioni che abita, ha una porzione di potere per
decidere quali messaggi trasmettere.
Sempre Virginia Fiume, riferendosi alla ricerca LaTorre di Pisa dice:
“[…] per asseverare bisogna saper essere. E l'educatore – per
tornare all'idea di educazione di Aaron Swartz – è colui che aiuta a sviluppare
gli strumenti per saper essere. […] Certo, c'è un rischio molto alto in questo
approccio, il rischio di passare da un eccesso di guida e controllo al non avere
una guida. Ed è in questa zona di rischio che si gioca la credibilità
dell'educatore e del formatore. […]Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza
dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E
imparare a scegliere con chi farlo”.
Inizia a farsi più chiaro il
rapporto tra circolarità comunicativa e fenomeno educativo. Comunicazione ed
Educazione si sostanziano vicendevolmente in una struttura sociale. Come I.
Salomone nelle sue Lezioni di Pedagogia
interazionale (a cura di C. Gambalonga, R. Pacchioni, Magma edizioni, 2005)
sostiene:
“[…] in un universo teorico che
ha come paradigma centrale quello della comunicazione il problema degli
strumenti si deve trasformare nel problema dei linguaggi dentro la
comunicazione educativa; vanno quindi studiati quali tra i linguaggi siano
quelli che fanno parlare la comunicazione in senso educativo, la particolare
lettura che noi diamo di questo universo teoretico è la teoria dei media
interazionali. Il passaggio fondamentale dai paradigmi pedagogici orientati ai
contenuti, agli strumenti ed ai processi di apprendimento, alle teorie e
tecnologie della comunicazione rappresenta, dunque, il vero mutamento
paradigmatico, ossia il trascinamento dei problemi dell’educazione in un
universo paradigmatico differente. La rivoluzione paradigmatica non si colloca
tanto nell’interpretazione che ne diamo noi, ma nel passaggio dall’orientamento
di tipo oggettuale, che spezza la relazione educativa in oggetti esterni
manipolabili, in un orientamento di tipo comunicazionale. Esso considera come fatto rilevante la relazione educativa
intesa come interazione comunicativa tra attori entro una scena sociale e
può ricomprendere i paradigmi precedenti sulla base di teorie prodotte dagli
stessi, collocando i processi di tematizzazione, i ruoli ed i linguaggi dentro
la comunicazione educativa stessa”
Dove per “comunicazione” si vuole
andare ben oltre la sola comunicazione verbale, ovviamente, perché sappiamo che
anche e soprattutto i corpi parlano
e, abbiamo detto, anche i sistemi
organizzativi, nonché le immagini e tutto ciò attraverso cui,
implicitamente, vogliamo trasmettere contenuti e conoscenze.
Nel Blogging Day
#educazionEbellezza, Rita Totti,
avvocato e mediatrice familiare, infatti narra:
“[…] una dolcissima docente delle
scuole medie inferiori dedicava interi pomeriggi della sua vita a
preparare per noi percorsi in immagini che ci mostrassero la bellezza, in senso
classico. Quelle lunghe mattinate, in sala proiezioni, a scrutare nel buio
dell’aula statue greche, bassorilievi, affreschi e ad ascoltare la ‘prof.’ descriverli,
con l’amore e la perizia di una vita dedicata allo studio dell’arte”.
Una docente che io immagino
estremamente appassionata all’arte, tanto da in-segnare la stessa passione ai
suoi alunni, senza parlarne, perché capace di dare invece voce alle opere d’arte
mostrate e tanto amate.
Rimanendo in tema di passione e
amore, nel Blogging Day #educazionEamore, Cristina Crippa,
formatrice ed orientatrice, pone una distinzione tanto semplice, quanto chiara
e diretta, della differenza tra relazione affettiva e relazione educativa. Dice
infatti:
“Ho imparato che una relazione d’amore e una relazione educativa sono
profondamente diverse. Ho sperimentato che educare qualcuno non è amarlo, ma
amare qualcuno è anche educare e farsi educare. C’è una dinamica comune in
queste due relazioni umane che non smette di catturare il mio interesse: amare
qualcuno, educare qualcuno significa accompagnarlo fuori da sé, senza lasciarlo
solo. Fuori da sé, ma dove? Credo in luoghi dove vedere nuovi mondi possibili e
rappresentazioni di sé inedite ma accessibili, luoghi in cui realizzare forme
di benessere crescente. I luoghi del cambiamento, della trasformazione. In una
relazione educativa una persona impara grazie all'altro a prendersi cura di sé
e della propria esistenza, a prendersi in carico il proprio stare nel mondo. In
una relazione amorosa tutto ciò è reciproco: in fondo amare ed essere amati è
potenziare e sviluppare la capacità di amare se stessi. È possibile educare
qualcuno all'amore? Credo che un compito certamente educativo sia occuparsi di
come far crescere nelle persone la capacità di scegliere, di riconoscere
l’altro tra gli innumerevoli incontri che abitano una vita, riconoscerlo non
solo come qualcuno da amare e da cui farsi amare, ma piuttosto come qualcuno in
cui ricercare forme migliori di sé e a cui aprire lo stesso spazio di ricerca,
in noi e attraverso noi.”
Questo accade andando ben oltre la semplice e più immediata
comunicazione verbale, imparando a stare in un rapporto interpersonale fatto soprattutto
di azioni concrete, che 'parlano'. La stessa autrice però ci regala, al termine del suo
articolo, due dialoghi, di cui qui ne riporto uno soltanto, Piccolo dialogo da un amore educato:
“Cosa vuol dire che mi ami? “
“Mi fai sentire come mi vedi tu.
Quando mi guardi io sono un essere meraviglioso, e adoro esserlo. Quando non ci
sei e non mi guardi, io costruisco quell’immagine di me, vivo cercando di
realizzarla. Quando non tornerai più a guardarmi, io conserverò quell’immagine
dentro il mio mondo, e continuerò a farla vivere”.
“Ma io non faccio niente di
speciale per fare tutto questo…”
“Lo so, tu mi ami e basta. Non è
speciale: è solo così.”
“Come fai a saperlo?”
“Vedo questa immagine, in tutta
la sua complessità e nei minimi dettagli; i colori, le sfumature, le
imperfezioni: mi piace, e finché continuerai a dipingerla, so che mi amerai.”
“Ma io ti amo per quello che
sei!”
“Non credo, mi ami per ciò che
vedi che potrei essere e diventare: e mi fai credere che posso riuscirci, e io
ci riesco.”
“Ci riesci…”
“Sì, il tuo amore mi insegna ogni
giorno qualcosa su di me.”
“Cosa hai imparato su di te
attraverso il mio amore?”
“Ad avere rispetto e cura per il
mio corpo, ad ascoltare i pensieri e i desideri della mia pelle, a sorridere
una volta al giorno davanti allo specchio: ho imparato che il mio corpo ha
bisogno di attenzione e in cambio può restituirmi benessere e piacere.
A non rincorrere il tempo, a non
consumarlo, a viverlo con intensità: ho imparato a non lottare con il tempo, a
goderne.
A far fatica, a lavorare
duramente per realizzare i miei desideri: ho imparato che ho la forza per
ottenere ciò che mi fa stare bene, che sono una persona tenace, che posso
farcela.
A sentirmi una persona libera: ho
imparato che la libertà è poter scegliere ogni giorno cosa vuoi essere, come
vuoi vivere, cosa ti fa stare bene.”
“Sì, vabbè… che esagerazione! Mi
fai sentire una specie di Maestro!!! Io ti amo solo perché mi ami: perché
quando ti penso sto bene, quando ci sei ancora di più, perché mi piace far cose
con te (a parte qualche volta, quando sei insopportabile… allora si che mi
insegni anche tu qualcosa di me: quanto so essere paziente…). Io pensavo di
averti insegnato altre cose: che stai bene con i pantaloni neri, che i capelli
sciolti e gli occhiali ti donano, che ti piace il gelato alla fragola, che hai
bisogno di dormire 10 ore ogni notte, che se tieni in
ordine le tue cose le trovi più facilmente, che se metti l’orologio avanti non
arrivi sempre in ritardo, che se conti fino a dieci prima di dire ciò che pensi
a volte è meglio… cose del genere, insomma.”
“Adesso sì che mi sembri la mia
Maestra delle elementari, che credeva di avermi insegnato a leggere libri, e
non si rendeva conto che mi stava aprendo le porte di un mondo intero: la
letteratura!!! Certo, poi ho deciso io di entrare in quel mondo e di
esplorarlo, ma non l’avrei potuto fare se lei non me lo avesse mostrato, se non
mi avesse fatto credere che ero in grado di andarci e che ci avrei trovato cose
meravigliose, se non mi avesse accompagnato un po’…
Ma tu mi amerai per sempre?”
“Francamente non saprei… ciò che
diventiamo dentro questo amore però forse sì, rimarrà per sempre. Ci rimarrà
questo: sapere come si fa, come si fa un amore.
Ma dobbiamo proprio parlare di
questo, oggi…?”
In questo scambio comunicativo verbale, si può rintracciare l’importanza di imparare a governare le parole che si esprimono, quando è importante che all’altro arrivino contenuti scelti e intenzionali.
Io non so se Cristina abbia
effettivamente sostenuto questo dialogo con la persona che ama. So però, e per
certo, che scriverlo le ha permesso di consolidare i suoi pensieri rispetto a
quello che per lei è importante che sia un rapporto d’amore. È proprio questo
che la narrazione scritta permette e
insegna ed è per questo che in Educazione è importante scrivere e
trascrivere le narrazioni “parlate” che colorano le esperienze educative. È quel
terzo livello di rielaborazione con cui terminavo l’articolo “Circolaritàcomunicativa. Là dove può stare l’educazione”.
Non sempre si ha tempo, lo so
bene, per ritrascrivere le interazioni comunicative avvenute nell’arco di una
giornata lavorativa, per chi fa l’Educatore di professione. Non ritengo nemmeno
sia importante trascriverle tutte. È l’esperienza
dello scrivere e del trascrivere che insegna e che ci permette di ritornare
nelle interazioni live, face to face, con maggior consapevolezza
di governo della comunicazione. Anche scrivere
di esperienze educative, senza riportarne i dialoghi verbali, ha il suo perché
autoformativo. Non insegna a gestire meglio lo scambio in diretta con gli
educandi, ma insegna a riflettere sulla
tipologia e sul valore delle esperienze che, a volte anche spontaneamente e
rubando dalla vita che scorre le occasioni che capitano, proponiamo a chi è con noi per imparare qualcosa di nuovo su di sé, sul
Mondo e sul suo-proprio-stare-nel-Mondo.
Quando queste esperienze di scrittura avvengono
pubblicamente, dobbiamo inoltre sforzarci di essere il più chiari
possibili, perché arriveranno ad altri, che se ne faranno ciò che vorranno e
potranno, e la chiarezza diventa quindi un elemento di responsabilità dello
scrivente.
Se infine, si scrive pubblicamente nel web, dobbiamo anche fare i conti con un pubblico potenzialmente più vasto e con una lettura dello scritto altrettanto potenzialmente immediata. Questo fa sì che, scrivere nel e per il web, porti con sé anche la necessità di imparare a concentrarsi maggiormente sui contenuti che trasmettiamo, che condividiamo, e sulla forma che diamo loro. E questo permette di raggiungere un differenziale di competenza ancora maggiore rispetto alla circolarità comunicativa e alla capacità di pensiero che richiede.
Circolarità comunicativa e fenomeno educativo, quindi, si sostanziano
nella medesima struttura sociale. Le comunicazioni veicolano messaggi che formano pensieri e comportamenti.
Compito pedagogico è analizzare queste strutture per rendere intenzionale il
loro utilizzo non solo ai fini di marketing (in cui il mondo del socioeducativo
dovrebbe molto migliorarsi), ma anche e soprattutto per esplorare ed
evidenziarne la loro portata educativo/formativa.
La circolarità comunicativa, quindi, come mezzo fondamentale e
paradigmatico del fenomeno educativo, all’interno del setting pedagogico
(I. Salomone, 1997). È cioè attraverso l’interazione comunicativa tra educatore
(che insegna) ed educando (che impara), che si costruisce una relazione orientata
all’evoluzione personale: l’educando si forma attraverso le esperienze
attraversate con l’educatore, che insegna. L’educatore, si forma, attraverso la
gestione pedagogica costante del setting.
Ma anche il lettore si forma
attraverso pensieri scritti ‘pensati’ a dovere, e con intenzionalità pedagogica
nel nostro caso. Lo scrittore (se anche con finalità educativo/formative) si
forma attraverso l’esperienza dello scrivere testi (magari anche pedagogicamente
orientati).
È questa una circolarità comunicativa
che, a costo di diventare ridondante, definirei sostanzialmente pedagogica. Snodi pedagogici ha provato a
trattarla.
Gli altri blog che partecipano al Blogging Day #pensodunquebloggodue, sono:
La Bottega della Pedagogista, di Vania Rigoni
Ponti e Derive, di Monica Cristina Massola
E di Educazione, di Anna Gatti, con un guest post di Alessia Zucchelli, collaboratrice del blog.
Bivio Pedagogico, di Christian Sarno
Trafantasiapensieroeazione, di Monica D'Alessandro Pozzi
Labirinti Pedagogici, di Alessandro Curti
In Dialogo, di Elisa Benzi
Il Piccolo Doge, di Sylvia Baldessari
Ponti e Derive, di Monica Cristina Massola
E di Educazione, di Anna Gatti, con un guest post di Alessia Zucchelli, collaboratrice del blog.
Bivio Pedagogico, di Christian Sarno
Trafantasiapensieroeazione, di Monica D'Alessandro Pozzi
Labirinti Pedagogici, di Alessandro Curti
In Dialogo, di Elisa Benzi
Il Piccolo Doge, di Sylvia Baldessari
giovedì 21 agosto 2014
Pedagogia e organizzazioni aziendali
Viviamo immersi nei sistemi
organizzativi. Inutile che vi elenchi scuole, ospedali, imprese lavorative,
sistemi di compra e vendita, carceri, partiti, Chiese, servizi. E poi quelle informali: famiglia, gruppi di
amici, di volontariato, Oratori, movimenti partitici, luoghi dello sport, della
cultura, del benessere e del tempo libero. Insomma, grandi categorie dentro le
quali ognuno di noi, quotidianamente, è immerso.
Da tempo, soprattutto con due
colleghe Monica Massola e Anna Gatti,
stiamo riflettendo intorno a ciò che il pedagogico può e deve dire alle
Organizzazioni. La pedagogia, infatti, veicola saperi che ancora ad oggi
rimangono nel sommerso. Un sommerso che non è mentale, inconscio, ma
estremamente materiale, corporeo e organizzato.
Quando qualcuno mi chiede cosa io faccia di
lavoro, sentendomi pronunciare la parola “pedagogista”, la risposta più
frequente che fa da eco alle mie spiegazioni si riferisce al fatto che io lavori con i bambini e magari anche con
i genitori. Vero, verissimo. Ma non solo. Chi si occupa di pedagogia, infatti,
si interfaccia con persone di qualunque età (bambini compresi) e in qualunque
ruolo sociale (genitori compresi). Ciò che però il pedagogico guarda e pone
sotto la lente di ingrandimento, non sono le persone, ma i processi educativi
nei quali queste sono immerse, riferendosi ai contesti di vita di volta in
volta da loro frequentati (famiglie, servizi educativi scolastici ed
extra-scolastici, luoghi di socializzazione e di compito generici).
Ciò che ancora deve prendere
piede in campo pedagogico è la possibilità di sondare, conoscere, analizzare,
potremmo dire anche scandagliare, i contesti aziendali. Anch’essi sono luoghi
di compito e di socializzazione. Anch’essi sono luoghi organizzativi in cui diversi
ruoli sociali si interfacciano con compiti precisi, costruendo esperienze in
cui, le persone che li attraversano, imparano qualcosa su di sé e sull’Altro da sé, in rapporto con il lavoro,
la professione, gli obiettivi da raggiungere, i prodotti da creare, manutenere,
offrire.
Non c’è da stupirsi dunque, se la
pedagogia ha qualcosa da dire anche in questo campo. C’è forse anzi da stupirsi
del contrario. Come è possibile che, ancora ad oggi, il pedagogico non si sia
legittimato lo sbarco in questi territori?
Mi potrete dire che mi sbaglio, che
anche nelle aziende si parla di Formazione. Esiste poi tutto il capitolo di
scelta e selezione del personale e gestione delle risorse umane, che io, più
propriamente, definirei di orientamento e ri-orientamento organizzativo e professionale.
Vero. Ma non è detto che tutto ciò avvenga in un’ottica pedagogica. Anzi, per
la mia esperienza, ne sono sicura.
Questo perché, nonostante siano esistiti e
probabilmente esistano tuttora, corsi di laurea in Scienze dell’educazione, ad
indirizzo Formatori dei sistemi aziendali, la qualità pedagogica di queste
professionalità aziendali non ha mai trovato legittimazione. Sistemi di potere,
di conoscenza e professionali, avversi? Può essere. La causa principale che io
intravedo però, mi dispiace per me e per tutti i miei colleghi, si rifà alla
poca temerarietà teorica di chi lavora nel pedagogico. Aspetto che se
affiancato alle derive morali che da sempre l’Educazione porta con sé
(“facciamo del bene”, “aiutiamo gli altri”) ha allontanato di netto il sapere
pedagogico da ogni ambito pur lontanamente aziendale perché basato e motivato
dal profitto.
Per me questo è un grosso errore.
A cui fa compagnia una scarsa conoscenza epistemologica della scienza
pedagogica per cui mi pare sia ancora necessario ribadire con forza che per
aiutare gli altri, non serve una scienza di appoggio. Per aiutare gli altri,
per far del bene, serve aver tempo a disposizione e buon cuore, guarda caso
caratteristiche afferenti all’ambito del volontariato e non di qualche
professione. Dopodiché, molte professioni e mestieri hanno come effetto
collaterale il fare del bene. Anche un elettricista che sistema guasti nelle
abitazioni, o negli ospedali, fa del bene collateralmente, aiuta. Ma nessuno
dice che il suo lavoro consiste nell’aiutare gli altri.
Il sapere pedagogico si sostanzia nel
governo di processi educativi, attraverso la gestione di setting in cui c’è
chi ha la responsabilità di ruolo di insegnare e chi si ritrova nel ruolo di
colui o colei che impara. Anche nelle aziende c’è chi insegna e chi impara. Nei
corsi di formazione, ma non solo. Esistono ruoli predisposti, per definizione
organizzativa e per esperienza lavorativa maggiore, a mostrare le pratiche del
mestiere e permettere ai sottoposti, o a chi svolge mansioni differenti, di
imparare qualcosa di nuovo, arricchendo la propria professionalità. Arricchimento
che, tra l’altro, non è solo di chi impara, ma anche di chi insegna. E questo
accade durante la pratica lavorativa quotidiana, senza che il tempo produttivo
si fermi in qualche aula formativa.
Non c’è dunque una ragione vera
ed epistemologica per cui il pedagogico non possa entrare in ambito aziendale.
E, come ci ha insegnato a dire Mel Brooks: si può fare!
giovedì 14 agosto 2014
Circolarità comunicativa. Là dove può stare l'Educazione.
“Le storie fanno parte della vita di ogni
giorno: siamo sottoposti quotidianamente a migliaia di stimoli narrativi da
parte delle agenzie narrative (televisione, videogiochi, cronaca, ecc...). Le
storie, se usate consapevolmente, possono diventare degli straordinari
strumenti per mettere ordine e dare un senso alle esperienze, per immaginare il
futuro e gestire le scelte, per costruire la propria identità e quella dei
gruppi di cui facciamo parte. Le storie sono uno strumento per lo sviluppo
delle persone, per l'assunzione di potere e controllo (empowerment) sulla
propria vita e sulle proprie scelte.” F. Batini, S. Giusti, Le storie siamo noi.
Mi piace iniziare con questa
considerazione. Noi siamo fatti delle storie che viviamo, per come le
raccontiamo o ci vengono raccontate. A quanti di voi è capitato, a me un
milione di volte, di raccontare una propria esperienza e poi portarsi con sé,
nei ricordi, più il racconto che ne abbiamo fatto che non i fatti per come sono
realmente accaduti? Chiaro, come in tutto, anche in questo ci può essere una
deriva patologica, che però non è interessante ora e non interessa a me. Storie
d’amore terminano e spesso i due protagonisti hanno memorie differenti di ciò
che hanno vissuto e paradossalmente condiviso. Lo stesso accade quando si
racconta di un corso di formazione, di un accadimento lavorativo. In generale
ce ne accorgiamo ogni volta che raccontiamo la nostra versione dei fatti a
terzi, in presenza di persone che sono state testimoni della “nostra”
esperienza. Pongo le virgolette al pronome possessivo perché non è un caso che
le esperienze siano connotate da caratteri neutrali. Ciò che le tinge di
sfumature particolari, è il modo in cui ognuno di noi le vive e le colora.
Quando raccontiamo, compiamo forti
selezioni degli accadimenti reali, anche senza volerlo e nemmeno senza dover
avere particolari abilità comunicative. Se gli esseri umani sono l’unica specie
ad oggi vivente, e conosciuta, che necessita di rappresentarsi ciò che accade
nel Mondo, a maggior ragione questo bisogno diventa stringente quando si vive
qualcosa in prima persona. “Non puoi sapere come sia andata veramente! Sono io
che l’ho vissuta! Io so come è andata!”. È questa una sacrosanta verità, che
però rimane incompleta se lasciata a se stessa. La nostra vita è il risultato
dell’incontro tra le storie che “ci” raccontiamo con quelle che, di noi e del
Mondo, ci raccontano gli altri. Un esempio su tutti, banale forse, ma preciso:
quanti ragazzi e ragazze crescono convinti di non essere bravi a disegnare
perché “Me l’han sempre detto di non essere buono/a…”. Poi capita, e io ne ho
le prove, che gli stessi ragazzi e ragazze cimentandosi, per chissà quali
convergenze astrali, nella stessa attività da più grandi, scoprano di avere
capacità inaspettate. Quello che gli altri, soprattutto se sono persone
affettivamente significative, ci raccontano di noi, ci fanno diventare quel che
siamo.
La narrazione delle storie ha
molto a che fare quindi con i processi educativi. Tutti noi tendenzialmente
viviamo un giorno dopo l’altro e, presi dai mille impegni, difficilmente
troviamo il tempo per mettere a fuoco la nostra vita. Il risultato è che, se
non riusciamo ad allenare la nostra consapevolezza, abbiamo la forte sensazione
che il Mondo vada avanti anche senza di noi, che le cose capitino perché così
deve essere, che ci sono cose impossibili da governare. E per certi versi è
vero. Per fortuna non possiamo controllare tutto. Se così fosse avremmo una
triste vita senza sorprese. Ma allenare la consapevolezza vuol dire trovare
quel giusto mezzo tra ciò-che-posso e
ciò-che-capita.
L’Educazione è
l’allenatore in questo gioco. Insegna a mettere a fuoco ciò che abbiamo imparato
dalle esperienze che abbiamo vissuto. Ma non solo. Basandosi necessariamente
sull’interazione tra due o più individui, permette di raccontarle e
raccontarcele, trasforma le esperienze in storie da leggere e rileggere, per
far sì che la vita di ognuno possa diventare un libro compiuto, per come ai
protagonisti piace. E, se piace (questo è un must dei percorsi di Orientamento), vuol dire che ci appartiene,
che è una storia capace di far vibrare le nostre corde e ci permette di
comporre nuove parti della colonna sonora dei nostri giorni.
So che l’ambiguità è dietro la
porta in questo discorso. Un errore enorme, da parte degli educatori, sarebbe
quello di contribuire a inventare storie su di sé, allontanando le persone dal
dato di realtà. Questa è una deriva pericolosa che è fondamentale aver sempre
ben presente. Lo spettacolo però inizia quando, a partire dai dati di realtà,
una persona riesce a costruirsi una storia di sé che le appartenga, imparando
a non trascurare le pagine oscure della propria esistenza, a godere di quelle
colorate, per poi continuare a scrivere di sé,con tutti gli incontri e le
esperienze che compie vivendo.
E c’è poi un importante distinguo
da sottolineare. Raccontare storie è differente dal raccontarsele, perché questa seconda declinazione può indicare sia
la necessità di raccontarsi storie per rassicurarsi, ma anche il bisogno di allontanare
la “verità” dei fatti, perché ci fa male, non riusciamo a sostenerla.
Raccontare le nostre storie a qualcuno, invece, ci pone in un percorso di
autoconsapevolezza crescente. Ed è qui che trova spazio l’Educazione. Chi ci
ascolta può infatti aiutarci a ri-guardare l’esperienza che narriamo,
cogliendo, attraverso un’intenzionalità pedagogica, i ruoli che abbiamo
rivestito in quella storia, dandoci la possibilità di scegliere nuovamente quei
ruoli, in date situazioni o provare a giocarne altri.
Sfogliare le esperienze
vissute, con chi di professione ha il compito di individuare gli scarti di
apprendimento possibili, fa sì che anche a posteriori una persona possa mettere
a fuoco capacità, competenze, interessi, strategie di azione e di interazione. Un
bagaglio di autoconsapevolezze con cui è possibile continuare a vivere con
maggior sicurezza e intenzionalità. Lo stesso avviene mentre viviamo un’esperienza
nel presente e un educatore ci accompagna ad attraversarla mostrandoci nella contemporaneità
dei fatti quello che stiamo imparando.
Esiste poi un secondo livello. Quello
che ci permette una narrazione scritta. Porci con carta e penna, o sulla
tastiera, per trascrivere una nostra esperienza è un’azione che dischiude
svariate possibilità.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Si può scrivere per se stessi, compiendo una autoriflessione. Si può scrivere su foglietti volanti, diari, riempire file che rimarranno nei nostri dispositivi informatici, a mo’ di autobiografia, ma anche per aneddoti e con l’intenzione di conoscerci meglio.
Si può scrivere per altri, che leggeranno le nostre parole, quali interlocutori legittimi e attivi capaci di darci rimandi su ciò che decidiamo condividere.
Scrivere per altri è un’esperienza
che in-segna. Nel momento in cui
buttiamo giù pensieri sapendo che qualcun'altro li leggerà, facciamo lo sforzo
di rendere comprensibile, leggibile appunto, quell’esperienza. In questo processo,
automaticamente, la stessa esperienza si rende più chiara anche per noi. Ci soffermiamo
sui particolari, perché siano chiari per chi li leggerà. Ne scopriamo di nuovi.
La stessa esperienza si arricchisce, si svelano pieghe di cui prima non
conoscevamo l’esistenza. S-piegare a
qualcuno indica proprio l’atto di scandagliare le pieghe e dare uniformità alla
tela già tessuta.
Esiste anche un terzo livello di
rielaborazione. Cosa imparo a narrare di me e delle mie esperienze? E cosa vuol
dire imparare a narrare un’esperienza educativa o che parli di Educazione? e scrivere su web implica variazioni?
Il 28 agosto, con il Blogging day
#pensodunquebloggodue, Snodi Pedagogici tenterà di raccontarlo.
venerdì 18 luglio 2014
#pedagogicalert - Il rischio dell'Imbuto. La ricerca della Torre di Pisa
Il
tema lanciato a luglio da Snodi Pedagogici è: #PEDAGOGICALERT
"Quali
sono le zone oscure dell’educazione?
Quali
elementi ci sono nell’educazione e nella pedagogia che, se non
vengono valutati, portano l ‘azione educativa ad essere “pericolosa” per chi
educa e chi è educato?
Chi
sono i cattivi maestri?
Oppure
la pedagogia può come disciplina, citando Marguerite Yourcenar, saper guardare
nel buio con disobbedienza, ottimismo e avventatezza e scoprire strade
inusitate?"
Aaron Swartz è un nome che potrebbe essere oscuro a molti. Sanno benissimo di chi si tratta gli appassionati di storia del web, le persone che hanno seguito la nascita delle licenze Creative Commons o che sanno che cos'è un Feed Rss. Gli educatori più appassionati alle modalità di accesso alla cultura sanno probabilmente qualcosa in più: Swartz è stato tra gli attivisti dell'Open Access Movement: un movimento costituito da persone che credono che l'accesso agli articoli accademici debba essere libero e gratuito.
Aaron Swartz si è suicidato a 26 anni, l'11 gennaio del 2013. Aaron Swartz rischiava una condanna a 35 anni di prigione per aver scaricato dal database accademico Jstor 4,8 milioni di articoli.
“Perché mi devono insegnare la geometria quando posso leggere un libro di geometria? Perché devo ascoltare la loro versione della storia americana se posso trovare almeno tre fonti diverse che la ricostruiscono in maniera diversa?”. Questa era l'idea di educazione di questo dolce e combattivo genio. La citazione emerge dal racconto del fratello di Aaron, una delle voci che raccontano la vita di Swartz nel documentario The internet's own boy .
Aaron Swartz per me rappresenta il promemoria quotidiano dell'esistenza di un lato oscuro dell'educazione. Quel punto in cui l'educazione smette di assolvere la sua funzione etimologica, il “portare fuori” di ex+ducere, e si trasforma nell'imbuto, in qualcosa che “mette dentro”. L'educatore come qualcuno che infila le idee nella testa degli studenti, invece che favorire lo sviluppo dello spirito critico. Il sistema educativo che inserisce le fonti a cui si dovrebbe attingere per aumentare e condividere la conoscenza in depositi costosissimi, invece che renderle accessibili.
Da dieci anni la mia vita si intreccia con quella di Assoetica, l'organizzazione che si occupa di offrire formazione a manager e professionisti in direzione etica, con cui collaboro come social media editor. E in questi 10 anni di corsi, laboratori, letture, c'è concetto che mi è entrato in testa più di altri: l'asseverazione come sostituta della certificazione . Quest'ultima infatti si basa su criteri assoluti, mentre la prima chiama direttamente in causa l'individuo, la sua storia, il suo percorso.
Cosa c'entra questo con la pedagogia? C'entra. Perché la pedagogia si basa sullo sviluppo di tre saperi fondamentali: il sapere, il saper fare e il saper essere. E per asseverare bisogna saper essere. E l'educatore – per tornare all'idea di educazione di Aaron Swartz – è colui che aiuta a sviluppare gli strumenti per saper essere.
Certo, c'è un rischio molto alto in questo approccio, il rischio di passare da un eccesso di guida e controllo al non avere una guida. Ed è in questa zona di rischio che si gioca la credibilità dell'educatore e del formatore. E se l'educazione è il progetto per una persona, mi piace concludere con l'immagine che Francesco Varanini, presidente della delegazione Lombardia dell'Associazione Italiana Formatori e direttore scientifico di Assoetica, associa al progetto ben riuscito: la Torre di Pisa, la cui bellezza “sta nell’unicità e nell’imperfezione”, di cui parla anche Mauro Scardovelli.
Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E imparare a scegliere con chi farlo.
Quindi la fuga dal pericolo, la bellezza dell'educare e dell'essere educati, sta nell'inseguire quella imperfezione. E imparare a scegliere con chi farlo.
MINIBIOGRAFIA DELL'AUTRICE
Virginia Fiume, nata nel 1983 a Milano, è antropologa dei media.
Lavora come content strategist freelance e cura la comunicazione di Assoetica, organizzazione che dal 2002 ha formato manager e professionisti, con docenti di fama internazionale.
Vive a Vancouver.
Tutti i contributi
verranno divulgati dai blogger di Snodi Pedagogici, condivisi e commentati sui diversi social e raccolti a questo link
I blog che partecipano:
Il Piccolo Doge di Sylvia
Baldessari
Ponti e Derive di Monica
Cristina Massola, primo contributo
Ponti e Derive di Monica Massola, secondo contributo
Ponti e Derive di Monica Massola, secondo contributo
E di Educazione di Anna Gatti
La Bottega della Pedagogista di Vania
Rigoni, primo contributo
La Bottega della pedagogista di Vania Rigoni, secondo contributo
La Bottega della pedagogista di Vania Rigoni, secondo contributo
In Dialogo di Elisa Benzi
Labirinti Pedagogici di Alessandro
Curti
I blogging day fanno
parte di un progetto culturale organizzato e promosso da SnodiPedagogici.
Questo avrà termine con
l'estate e sfocerà in un'antologia dei contributi
che verrà pubblicata sotto forma di ebook, il cui ricavato andrà in
beneficenza alla Locanda
dei Girasoli
Una volta finito il percorso di
pubblicazione online, i vari autori che hanno preso parte ai BDay, verranno
contattati dalla redazione.
martedì 24 giugno 2014
Mettere radici
Le vite vanno, scorrono. Gli anni passano e a un certo punto torni a confrontarti con un fatto che, qualche anno fa, ti ha fatto molto soffrire: ci sono storie impossibili da condividere perché non hanno un terreno comune in cui poter mettere radici. Tu, ragazza quasi trentenne, in preda a un amore insensato, ma allo stesso tempo autentico e profondo. Dopo 5 anni ti ritrovi a pensare che tocca a te mettere radici. Ne sei rimasta emotivamente inconsapevole in questi anni, ma pian piano la matassa aggrovigliata assume un ordine, cercato, voluto, difficile, agognato.
Alle prese con la tua vita da significare, arriva il giorno in cui dici a te stessa che le tue scelte, seppur sofferte, hanno avuto un senso. Immediatamente anche il presente e il recente passato assumono un senso compiuto.
Il desiderio di riaprire porte ormai chiuse è forte. Ma indietro non si torna, questa è la Vita. E finché capisci che qualcosa hai potuto imparare, allora va bene. Ti rendi conto di aver lasciato tracce dietro di te, nel bene e nel male. Insomma, ci sei stata e questo per te è importante.
Affiora un'esperienza fondamentale, che hai voluto cacciare via in questi anni, ma ora ti rendi conto di non poterlo fare: la devi accettare, devi amarla. Così per come è stata. È stata la situazione in cui più ti sei sentita sbagliata e contemporaneamente al posto giusto. Capire ora cosa puoi portare via con te è impresa ardua. Ma ora sai che avevi bisogno di quell'esperienza e hai dato la precedenza a te. Tu esisti, hai i tuoi bisogni, le tue passioni. Essere accogliente verso l'Altro, valore assoluto per te, può essere possibile solo se sai dove inizi e dove finisci tu. Disperdersi nell'Altro, invece, toglie l'opportunità di un incontro autentico.
Hai creduto alle esperienze che hai scelto di vivere. Hai creduto poi che queste esperienze non avessero più un senso per te. Oggi sai anche che ci sono esperienze che rifaresti, a distanza di anni, ripulendole magari di una serie di errori che ora vedi chiaramente. E sei felice di averle vissute. Questo vorresti dire con serenità a chi quelle esperienze ha condiviso con te, anche se ora non vogliono o non riescono a riaprire ponti di condivisione. Ci sei stata, hai scelto di starci e ora cominci a essere pronta per scegliere fino in fondo nuove occasioni, nuovi incontri.
Mettere radici è indispensabile. Si riescono a mettere con serenità e libertà solo quando, però, si è in grado di non adattarsi a un esistente che ha il sapore di necessità e rinuncia, ma si riesce a scegliere con convinzione. Le radici non solo ancorano al terreno, ma facendolo danno possibilità di rigenerarsi ad ogni Primavera e di resistere nei lunghi Inverni.
E se tu, che magari stai leggendo queste mie parole, capisci che le tue radici ti sono costate molto ma sono state essenziali per sopravvivere, sappi che nuova Linfa può arrivare ogni Giorno e che nella Vita si può continuare a sentirsi vivi anche per ciò che si è vissuto, per ciò che le nostre radici possono continuare ad assaporare e non solo per il nutrimento che arriva con un nuovo Giorno e un nuovo Sole. Me l'ha insegnato lei, la giovane donna di cui sto scrivendo. L'ho conosciuta e io ci credo. Da lei ho potuto imparare molto.
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